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Hiroshima, mon amour

Regia di Alain Resnais vedi scheda film

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La recensione su Hiroshima, mon amour

di spopola
10 stelle

Scusate se la ripropongo... ma per quanti tentativi abbia fatto non sono riuscito a sostituire "integralmente la vecchia" con questa nuova (e solo in parte diversa) versione. “Una mano di donna accarezza, palpa e graffia una spalla maschile. Su un letto, strettamente abbracciati, due corpi si stringono con i movimenti lenti e ciechi delle meduse, dei serpenti…” così Marguerite Duras “racconta” l’incipit di Hiroshima mon amour, e lo fa ancora una volta utilizzando il suo personalissimo modo di narrare, così inconfondibilmente legato all’elegia decadente e poetica della parola.
Se volessimo dare un giudizio sintetico sulla “singolare esperienza polivalente” rappresentata da questa pellicola, potremmo semplicemente dire che ci troviamo di fronte a un eccezionale capolavoro senza tempo, una vertigine drammatica - che rappresenta anche uno dei vertici assoluti della settima arte - che ha l’andamento di una sinfonia, con i suoi “crescendo”, le sue pause e i suoi “ritorni”, perfetta nella geometricità della sua struttura a incastro che segue il flusso della memoria. Struggente nel ricordo, folgorante nelle intuizioni anticipatrici di un “nuovo modo di fare cinema”, forse solo un po’ troppo intriso di “accademismo letterario” per lo stile eccessivamente ridondante dello script, che risente (inevitabilmente) degli stilemi e delle mode (direi anche dei “vizi”) di quegli anni, ma nobilitato da una regia ingegnosa e superba che copre (e dissimula) ampiamente queste piccole “falle”. Sarebbe ingeneroso però liquidare il tutto con tanta lapidarietà, vista l’importanza della pellicola (e la sua influenza “stilistica” su tutto ciò che è venuto dopo). Si rende di conseguenza necessaria una disamina accorta e dettagliata dei “segnali” disseminati nel percorso. Molta acqua è passata nel frattempo sotto i ponti e i consuntivi possono dimostrarsi ora più sereni e meno emotivamente viscerali, tanto che potremmo convenire che è davvero questo il tempo giusto, il momento più propizio, per un “ritorno” (parafrasando il titolo del bel documentario di Luc Lager che integra magnificamente l’ottimo Dvd disponibile nei negozi). E allora… apriamo a nostra volta i cancelli della memoria, per “ripristinare il giusto contatto” e procediamo con l’indispensabile “calma riflessiva”, a una adeguata e – per quanto possibile - esaustiva rivisitazione di quest’opera che nonostante gli anni mi sembra che mantenga ancora intatta la straordinaria definizione di un inusuale e inedito “codice esplicativo del racconto”, e l’innovativa “invenzione” della costruzione, a suo modo (e in quegli anni) persino rivoluzionaria.
Hiroshima mon amour fu presentato al festival di Cannes del 1959 fra qualche polemica e molte “resistenze”, soprattutto di carattere politico. Il film di Alain Resnais e della Duras (inevitabile citarli entrambi per la complementarietà assoluta del lavoro svolto, ciascuno per le proprie competenze), come era facilmente prevedibile fece scalpore e scandalo, suscitando incomprensibili ostracismi, e altrettanto entusiasmo, oltre a qualche ingiustificata diffidenza, non solo per la sua eleganza formale, ma anche e soprattutto per i suoi dichiarati propositi di "rottura" che non si limitavano a sovvertire semplicemente le regole del racconto cinematografico, così come era stato generalmente inteso fino a quel momento, ma cercavano di ridisegnarle in maniera totalmente anticonvenzionale e liberatoria (non condizionata cioè da alcuno schema precostituito).
Innovativo e insolito, costruito com’è tutto a incastri e flashback, Hiroshima, partendo da una sceneggiatura molto letteraria e a tratti banale, pur mantenendo una struttura forte e articolata, privilegia indubbiamente e prioritariamente, la costruzione "tutta musicale" (che si confermerà una prerogativa peculiare del cinema di Resnais) del rapporto immagine-parola, una caratteristica che emerge con maggiore evidenza dalla imprescindibile visione in lingua originale, perché il doppiaggio italiano - per molti versi pregevole - di Andreina Pagnani (grandissima e rimpianta attrice nostrana) è spesso in antitesi con le intenzioni del regista, troppo "drammaticizzato" e proprio per questo qualche volta addirittura "asincronico" rispetto alle immagini e ai ritmi delle inquadrature. La voce della Riva al contrario, si dipana più tranquilla (ma non meno “tragica” e disperata), seguendo arcate e reiterazioni personalissime che si innestano alla perfezione sulla trama generale dello spartito di questo poema sinfonico articolato nei vari movimenti che ha i suoi “adagio” e le sue “impennate” improvvise, così da assumere il difficile e virtuosistico ruolo dello “strumento solista” in perfetta simbiosi esecutiva con le modalità richieste dal direttore. Questa particolare angolazione di lettura del film, fu acutamente evidenziata proprio dal critico André Hodeir con un saggio pungente e arguto intitolato appunto: Riprendere alla musica, a suo tempo reperibile anche in Italia su un ormai introvabile libro edito da Feltrinelli e curato da Vittorio Spinazzola, dal titolo Film 1961.
E' comunque singolare che in un film così "musicale" perfettamente coordinato fra voci, parole e immagini, come in una complessa partitura orchestrale, sia proprio la musica, in quanto tale, la parte forse più debole e meno pregnante dell'insieme (non disprezzabile: tutt'altro, ma sicuramente meno innovativa e “rivoluzionaria” di tutte le altre componenti dell'opera).
Il regista (e la sua co-autrice), puntando più alla "ragione" che al "sentimento" e partendo da una storia squisitamente privata, con questa pellicola, celebrando il ricordo di una “tragedia epocale”, mira a colpire ogni forma di intolleranza, sovrapponendo al dramma della ragazza di Never punita per aver amato un soldato tedesco durante l'ultima guerra, il dramma collettivo di Hiroshima e dei suoi abitanti, città devastata - praticamente distrutta - dalle tremende conseguenze del lancio della bomba atomica da parte degli americani.
La vicenda è nota: proprio a Hiroshima l'attrice francese che sta girando un film sulla pace (quale nome, insieme a Guernica, può essere più simbolico e significativo di Hiroshima?) si vede restituire a poco a poco dalla memoria gli accadimenti di un passato lontano a Nevers: il suo amore, gli incontri clandestini col soldato tedesco, la fucilata che lo uccide lungo il fiume nel loro ultimo appuntamento, la punizione subita per il suo “collaborazionismo” emotivo, la disperazione dell'assenza, la perdita della ragione, il dileggio, l'isolamento, ed infine la fuga dalla vergogna, verso Parigi, per dimenticare e riprendere a vivere, mentre i giornali annunciano la fine della guerra “grazie” alla devastazione di Hiroshima (un “dramma” che sembra assumere, lontano dalla tragedia, la dimensione della “speranza”). In questo intenso recupero, così caro all'universo poetico della Duras (la dialettica tra il bisogno di dimenticare per continuare a vivere e l'implicito dovere di ricordare) passato e presente assumono un solo volto, e l'immagine del giapponese che ha provocato il ricordo di quel lontano amore impossibile, si sovrappone a quella del soldato tedesco morto, fino a diventare un'unica lancinante presenza. Ma anche lui sarà dimenticato: l'amore di Hiroshima si corrode come quello di Nevers, ricomincerà a dolere come ricordo, come coscienza dell'impossibilità di sfidare il tempo e assumerà il contorno e la dimensione di un nuova insostenibile assenza.
Il film parte da una articolata sceneggiatura che si sviluppa a più livelli e che è stata in parte rimaneggiata e sfrondata nel corso della realizzazione filmica. Ed è proprio la parte letteraria (pur così importante nella struttura "musicale" dell'insieme, grazie anche all'eccezionale apporto della recitazione di Emmanuelle Riva che abbiamo già prima evidenziato), quella che più risente del tempo trascorso. E' ad ogni buon conto un prodotto tipico della poetica della Duras che contiene, nel bene e nel male, tutte le specificità che rendono riconoscibilissima e inimitabile, la sua scrittura sempre e comunque. Accanto a tante ingegnose intuizioni (il ricordo iniziale della tragedia di Hiroshima e dei suoi sopravvissuti, i diari di Nevers) ci sono infatti pesanti cadute di gusto e "scivolate" in dialoghi obbiettivamente adesso poco difendibili che potremmo definire ciarpame accademico. Ecco, fra i tanti, un esempio particolarmente significativo e indifendibile: Il tempo per che cosa? Per viverne? Per morirne? Il tempo per sapere. Questo non esiste. Né il tempo di viverne, né il tempo di morirne. Allora me ne infischio. Sono altresì sicuro però che una grossa fetta del successo che il film, al di là di ogni più rosea previsione, ebbe alla sua uscita sugli schermi anche al di fuori della stretta cerchia degli addetti ai lavori, sia stata proprio motivata dalla "presa emozionale" che esercitò sul pubblico la parte "letteraria" dell'opera, così in sintonia con i gusti dell'epoca, perchè permetteva, al di là dell'arditezza del contesto, la facile identificazione con i sentimenti universalmente espressi da frasi indubbiamente ad effetto, ma di sicura “presa emotiva” del tipo: Da quattordici anni non ritrovavo il gusto di un amore impossibile oppure: Mi piaceva il mio sangue da quando avevo gustato il tuo. La sublimazione liricizzante della storia, compensava quindi l'oggettiva difficoltà (per molti) a “seguire il percorso” derivante dalla rivoluzionaria impostazione visiva atemporale e onirica, tutta scandita sul flusso delle immagini non cronologicamente coordinate, ma liberamente associate fra loro come in un rompicapo mnemonico. Certo, vedendo adesso il film, si stenta forse un pò a capire pienamente la portata innovativa dell'opera (lo stile imposto all’andamento delle immagini, la differente luminosità delle riprese di Nevers da quelle di Hiroshima, dovuta all'utilizzo di due operatori diversi, e soprattutto la rottura del rapporto spazio-tempo che lascia affluire sullo schermo frammenti di visioni, come brevi sussulti di ricordi, quali pezzi di un puzzle in progressiva, ma non coerente costruzione) e lo shock indubbiamente fortissimo provato dallo spettatore medio. Nel cinema odierno infatti, la frammentazione del tempo, i salti e gli incastri o le arditezze formali, sono ormai procedure ampiamente acquisite e digerite che possono supportare, senza alcun riferimento allo stile e al contenuto, anche opere di esclusiva e assoluta valenza "commerciale". Non era invece così nel 1959, epoca in cui, nonostante Quarto potere, si ricorreva ancora quasi esclusivamente a tecniche semplificative totalmente codificate e facilmente comprensibili (come il “tremolare del fotogramma” o la voce fuori campo, la dissolvenza incrociata, o persino l’utilizzo, fortemente insistito e sottolineato, dell’“associazione di immagini” evocativamente complementari) che aiutavano lo spettatore a capire il passaggio dal presente al passato, e viceversa. Non va dimenticato a questo proposito, che per il quasi contemporaneo (ma successivo di alcuni anni) 8 e 1/2 di Fellini, dopo le prime perplesse reazioni del grosso pubblico, in affanno evidente e non sempre disponibile a lasciarsi andare per “imparare” da solo a districarsi nell’aggrovigliata materia, il produttore, preoccupato per un possibile insuccesso commerciale, decise di intervenire sulle copie in circolazione ricorrendo all'espediente di virare con colori diversi le scene del sogno e quelle del ricordo, lasciando in bianco e nero solo quelle della realtà, banalizzando così tutto l'operato del regista, e ottenendo quale unico risultato, quello di confondere ancor più le idee per la difficoltà oggettiva di distinguere perfettamente i vari piani temporali, spesso incastrati a spirale fra loro.
Per rimarcare ulteriormente la valenza innovativa di Hiroshima, è sufficiente a mio avviso ricordare prioritariamente proprio la lunga sequenza iniziale delle spalle nude di un uomo abbracciate – quasi arpionate - da due mani di donna (immagini indistinte, deformate, impalpabili e pur concrete, degli amanti) alle quali si alternano visioni di un documentario impietoso e crudele e si “sovrappone” il dialogo scandito con impersonale e uniforme scansione armonica – quasi una aritmia atonale - del racconto di quell’esperienza traumatica: …Quattro volte al museo a Hiroshima. Ho visto la gente passare. Ho visto la gente passare pensierosa davanti alle fotografie, alle ricostruzioni, in mancanza di altro, alle spiegazioni in mancanza di altro…. Sarà poi la visione dell'amante addormentato, una furtiva analogia nel suo atteggiamento (disteso con le braccia lungo il corpo, la posizione rilasciata della mano) a far ritornare in un lampo il ricordo del primo amore, a fare rimaterializzare l'immagine dolorosa del tedesco ucciso fra le sue braccia. A questo punto l'identificazione tra le due storie sarà completa e inarrestabile, e la fusione del passato con il presente, irreversibile: Tu non eri affatto morto… Ormai ho raccontato la nostra storia… Vedi, potevo raccontarla… Guarda come ti dimentico…", o in ogni caso tale da determinare quasi la necessità dell’annullamento della frattura spazio-temporale: Ti dimenticherò! Ti ho già dimenticato… per arrivare finalmente - forse - all'oblio definitivo per la consunzione di tutte le residue reminiscenze con il loro bagaglio di dolore compresso, e acquisire una dimensione astrattamente universale degli avvenimenti che ancora una volta però non potrà che contrapporre e unificare l’umanità lacerata di queste due sofferte esistenze incrociate, in simbiosi quasi assoluta con le loro origini geografiche fino a farne un amalgama inscindibile e non più districabile: Hi-ro-shi-ma… è il tuo nome. E il tuo è Nevers… Nevers-en-France.
Non rimane adesso che da sottolineare nuovamente il contributo fondamentale di Emmanuelle Riva, presenza totalizzante e assoluta, del tutto assimilata al personaggio, che non ha avuto alcuna remora a mettersi in discussione non solo come "interprete”, ma anche come "donna" e persona affrontando un’esperienza singolare che va ben oltre il “mestiere dell’attrice”. E l'indissolubile legame del personaggio con colei che lo rappresenta, è ravvisabile proprio nella stesura della sceneggiatura (a suo tempo pubblicata da Einaudi nella collana I Coralli con la traduzione in italiano di Pierre Denivelle-Serra). Infatti, in uno dei monologhi più significativi e riflessivi, nell'alternanza mnemonica dei flussi del ricordi fra Nevers e Hiroshima, le parole non vengono più attribuite al personaggio di finzione, ma alla sua interprete. Cito testualmente dal copione: SUCCESSIONE DI STRADE DI HIROSHIMA E DI NEVERS. MONOLOGO INTERIORE DI EMMANUELLE RIVA: t'incontro, mi ricordo di te…Questa città era fatta proprio per l’amore. Tu eri fatto proprio per il mio corpo. Chi sei? etc. etc . E’ evidente l'osmosi assoluta, tanto da poter ipotizzare (e credo che non sia davvero un azzardo) che senza la Riva non ci sarebbe stato il film (o comunque ne sarebbe venuta fuori un’altra cosa).
Una grande partitura concertistica quindi quella che ci è dato di “ascoltare”, non solo con le orecchie, ma anche, e soprattutto, attraverso la percezione delle immagini. Una costruzione sinfonica che sviluppa e reitera i propri temi fra “impennamenti” ed “avvitamenti” a ritroso, che rappresenta davvero una tappa fondamentale (una pietra miliare direi) per la ridefinizione della sintassi cinematografica, che diventa qui a tutti gli effetti “avanguardia” e arte composita polifunzionale.
Citando ancora il saggio di Hodeir sopra menzionato, mi piace infine concludere proprio con le sue parole, perché non saprei trovarne di più appropriate e “definitive”: Altri cineasti subiranno lo choc del film di Resnais, e appariranno sugli schermi opere che ieri non sarebbero state possibili. Il cinema incomincia, incomincia appena. Spetterà ai creatori futuri dimostrarci se è possibile, secondo la profetica espressione di Mallarmée, “reprendre à la musique son bien”. Quei tempi sono venuti. E allora, voi che ne pensate? Si accettano scommesse!!!!

Sulla trama

Siamo nell’estate del 1957, in agosto a Hiroshima. Una francese di una trentina d’anni si trova in questa città. E’ venuta qui per recitare in un film sulla Pace. La vicenda comincia il giorno prima del ritorno in Francia di questa francese. Il film nel quale lavora è, praticamente, finito. Rimane solo una sequenza da girare. E proprio alla vigilia del suo ritorno in Francia, questa donno, senza nome nel film – questa donna anonima – incontrerà un giapponese (ingegnere o architetto) e insieme vivranno una brevissima storia d’amore. Le circostanze in cui si sono incontrati non verranno chiarite nel film. Non è questo l’essenziale. Ci si incontra ovunque nel mondo. ciò che conta è quello che segue a questi incontro di ogni giorno. E’ una coppia casuale; non la si vede all’inizio del film. Né lei, né lui. Si vedono, in vece loro, dei corpi “mutilati” – all’altezza della testa e dei fianchi – che si muovono, in preda forse all’amore, forse all’agonia, ricoperti successivamente dalle ceneri, dalle rugiade della morte atomica, e dal sudore per aver fatto all’amore. Solo a poco a poco da questi corpi informi, anonimi, verranno fuori i loro corpi. Sono in una camera d’albergo. A letto, nudi. Corpi lisci. Intatti. Di che parlano? Proprio di Hiroshima. Lei gli sta dicendo che ha visto tutto a Hiroshima. E intanto si vede quello che lei ha visto. E’ orribile. Nel contempo la voce di lui nega, tacciando queste immagini di menzognere, e ripete, impersonale, insopportabile, che lei non ha visto niente a Hiroshima. Il loro primo dialogo sarà dunque allegorico. Sarà insomma una specie di dialogo d’opera. Impossibile parlare di Hiroshima. L’unica cosa che si può fare è parlare dell’impossibilità di parlare di Hiroshima. Avere la conoscenza di Hiroshima è, a priori, una tipica illusione dello spirito. Quest’inizio, questa sfilata ufficiale degli orrori già celebrati di Hiroshima e adesso evocati in un letto d’albergo, quest’evocazione sacrilega, tutto ciò è voluto. Si può parlare ovunque di Hiroshima, anche in una camera d’albergo, durante amori casuali, amori adulteri. I corpi dei due protagonisti ce lo ricorderanno. Ciò che veramente è sacrilegio, se sacrilegio c’è, è Hiroshima stessa. Inutile essere ipocriti e spostare il problema. Per quanto poco gli abbiano mostrato del Monumento Hiroshima, miserabili resti di un Monumento di Vuoto, lo spettatore dovrebbe, dopo questa evocazione, trovarsi sgombro da molti pregiudizi e pronto ad accettare quanto gli verrà detto dei due protagonisti. Ecco infatti, tornati alla loro storia. Storia banale, storia che capita ogni giorno, migliaia di volte. Il giapponese è sposato, ha dei figli. Anche la francese è sposata, ha due figli. Stanno vivendo un’avventura di una notte. Ma dove? A Hiroshima. Questo amplesso, così banale, così quotidiano, ha luogo nella città del mondo in cui è più difficile immaginarlo: a Hiroshima. Un alone particolare circonda ogni gesto, ogni parola, con un significato che si aggiunge al significato letterale. Ed è qui uno degli scopi principali del film, smetterla con la descrizione dell’orrore con l’orrore (questo l’hanno già fatto i giapponesi), ma far rinascere invece quest’orrore dalle proprie ceneri, inserendolo in un amore che sarà necessariamente singolare e “stupefacente”. E al quale si crederà molto di più che se si fosse verificato in qualsiasi altro posto del mondo, in un posto che la morte non ha conservato. Fra due esseri, geograficamente, filosoficamente, storicamente, economicamente, razzialmente, ecc., lontani quanto più è possibile, Hiroshima sarà il terreno comune (forse l’unico al mondo) sul quale i dati universali dell’erotismo, dell’amore e della sciagura appariranno sotto una luce implacabile. Ovunque, fuorché a Hiroshima, l’artificio è ammesso. A Hiroshima non può esistere senza che venga, di nuovo, negato. Addormentandosi, parleranno ancora di Hiroshima. In un altro modo. Nel desiderio, e forse, a loro insaputa, nell’amore nascente. E ciò di cui parleranno riguarderà nel contempo loro stessi e Hiroshima. I loro discorsi saranno mescolati, mischiati in modo tale, da ora in poi, dopo l’opera di Hiroshima, che non si potranno distinguere più gli uni dagli altri. La loro storia personale, per breve che sia, avrà sempre il sopravvento su Hiroshima. Essi si sveglieranno. E mentre lei si veste parleranno ancora. Al risveglio parleranno anche del passato di lei. Che cosa è successo a nevers, città natale di lei, in quella Nièvre in cui lei è cresciuta? Che cosa è successo nella sua vita perché lei sia così libera e nel contempo perseguitata, così onesta e disonesta insieme, così equivoca e così chiara? Così desiderosa di avventure? Così vile davanti all’amore? Un giorno, è lei che racconta, un giorno a Nevers è stata pazza. Pazza di cattiveria. E questo lo dice come direbbe che a Nevers, una volta, ha raggiunto un’intelligenza decisiva. Nello stesso modo. Non dice se questo “incidente” di Nevers possa spiegare il suo comportamento attuale a Hiroshima. Lei racconta l’incidente di Nevers come racconterebbe qualsiasi altra cosa. Senza dirne il motivo. Poi se ne va ha deciso di non vederlo più. Ma si rivedranno. Le quattro del pomeriggio. Piazza della Pace a Hiroshima (o davanti all’ospedale). Dei cameraman si allontanano. Si vanno smontando le tribune,. Si staccano i festoni di bandierine. La francese dorme all’ombra (forse) di una di queste tribune. E’ stato girato un film edificante sulla Pace, nient’altro. Un giapponese attraversa la folla. Quest’uomo è lo stesso che la mattina abbiamo visto nella camera della francese. Quando infine la scorge, si ferma, le si avvicina, la guarda dormire. Il suo sguardo la sveglia. Si guardano. Lui non è lì per caso. E’ venuto per vederla ancora. Una sfilata avrà luogo subito dopo il loro incontro. E’ l’ultima sequenza del film che si sta girando. C’è molto caldo. Il cielo è minaccioso. Loro aspettano che passi la sfilata; in quel mentre, lui le dirà che crede di amarla. La porterà a casa sua. Parleranno brevemente delle loro vite. Sono due persone felici nel matrimonio, quindi né l’uno né l’altro cercano di compensare un’infelicità coniugale. Insieme a lui, e durante l’amore, lei comincerà a parlargli di Nevers. E fuggirà di nuovo; fino ad un caffè in riva al fiume, per “uccidere il tempo che manca alla partenza”. E’ già notte. Nel caffè rimarranno ancora qualche ora. Il loro amore aumenterà inversamente al tempo che rimane alla partenza dell’aereo l’indomani mattina. E in quel caffè lei gli dirà perché è stata pazza a Nevers. Le hanno rasato la testa, a Nevers, nel 1944, quando aveva vent’anni il suo primo amore era un tedesco. Ucciso alla Liberazione. Lei è rimasta in una cantina, la testa rasata, a Nevers. E solo quando fu “il tempo di Hiroshima” lei si trovo di nuovo ad essere abbastanza decente da poter uscire da questa cantina, e mescolarsi alla folla allegra delle strade. Perché la scelta di questa disgrazia individuale? Forse perché anche questa è, in se stessa, un assoluto. Radere la testa ad una ragazza perché ha amato d’amore un nemico ufficiale del suo paese, è un assoluto di orrore e di stupidità. Si vedrà ancora Nevers come già prima nella camera d’albergo. E riparleranno ancora di sé in una nuova intersecazione di Nevers e dell’amore, di Hiroshima e dell’amore. Tutto si mescolerà senza ordine prestabilito, esattamente come avviene ogni giorno, ovunque, dove ci sono coppie loquaci all’inizio di un amore. Poi nuovamente lei se ne andrà. Fuggirà ancora una volta lontano da lui. Cercherà di tornare in albergo, di calmarsi, non ne sarà capace. Uscirà dall’albergo e tornerà verso il caffè che intanto ha chiuso. E rimarrà lì a ricordarsi di Nevers (monologo interiore) e quindi “dell’amore stesso”. L’uomo l’ha seguita. Lei se ne accorge. Lo guarda. Si guardano, con l’amore più grande. Amore inutilizzato, sgozzato come quello di Nevers. Quindi già relegato nell’oblio. Quindi (e per questo) perpetuo. Lei non lo raggiungerà. Andrà in giro per la città. E lui la seguirà come se seguisse una sconosciuta. A un certo punto, l’accosterà come se parlasse a se stesso, le chiederà di rimanere a Hiroshima. Lei dirà di no. Per essi il dado è tratto ormai, veramente. Lui non insisterà. Lei girerà per la stazione. Lui la raggiungerà. Si guarderanno come se fossero delle ombre. Non hanno più nulla da dirsi. L’imminenza della partenza li inchioda in un silenzio funebre. Si tratta proprio di amore. Non possono far altro che tacere. Una scena estrema avrà luogo in un caffè. Leo è in compagnia di un altro giapponese. E a un altro tavolo ritroveremo colui che lei ama, immobile, senza altra razione in lui oltre quella di una disperazione liberamente accettata me che lo supera fisicamente. E’ già come se lei appartenesse ad “altri”. E lui non può che capire. All’alba, lei tornerà in albergo, in camera sua. Lui busserà alla porta qualche minuto dopo. Non ha potuto fare diversamente. “Impossibile non venire”, dirà per scusarsi. E nella camera non succederà niente. Saranno entrambi ridotti a un’impotenza reciproca terrificante. La camera, cioè “l’ordine del mondo”, resterà, e loro non lo disturberanno mai più. Nessuna confessione. Nemmeno un gesto. Si chiameranno soltanto. Come? Nevers, Hiroshima. Infatti ai loro occhi non sono nessuno, sia l’uno che l’altra. Non hanno che nomi di luoghi, nomi che non sono nomi. E’ come se il disastro di una donna a cui hanno rasato al testa a Nevers e il disastro di Hiroshima corrispondessero esattamente. (MARGUERITE DURAS - SINOSSI)

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