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Hiroshima, mon amour

Regia di Alain Resnais vedi scheda film

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La recensione su Hiroshima, mon amour

di spopola
10 stelle

“Una mano di donna accarezza, palpa e graffia una spalla maschile. Su un letto, strettamente abbracciati, due corpi si stringono con i movimenti lenti e ciechi delle meduse, dei serpenti…” così Marguerite Duras “racconta” l’incipit di Hiroshima mon amour, e lo fa ancora una volta utilizzando il suo personalissimo modo di narrare, così inconfondibilmente legato all’elegia decadente e poetica della parola.
Se volessimo dare un giudizio sintetico sulla “singolare esperienza polivalente” rappresentata da questa pellicola, potremmo semplicemente dire che ci troviamo di fronte a un eccezionale capolavoro senza tempo, una vertigine drammatica - che rappresenta anche uno dei vertici assoluti della settima arte - che ha l’andamento di una sinfonia, con i suoi “crescendo”, le sue pause e i suoi “ritorni”, perfetta nella geometricità della sua struttura a incastro che segue il flusso della memoria. Struggente nel ricordo, folgorante nelle intuizioni anticipatrici di un “nuovo modo di fare cinema”, forse solo un po’ troppo intriso di “accademismo letterario” per lo stile eccessivamente ridondante dello script, che risente (inevitabilmente) degli stilemi e delle mode (direi anche dei “vizi”) di quegli anni, ma nobilitato da una regia ingegnosa e superba che copre (e dissimula) ampiamente queste piccole “falle”. Sarebbe ingeneroso però liquidare il tutto con tanta lapidarietà, vista l’importanza della pellicola (e la sua influenza “stilistica” su tutto ciò che è venuto dopo). Si rende di conseguenza necessaria una disamina accorta e dettagliata dei “segnali” disseminati nel percorso. Molta acqua è passata nel frattempo sotto i ponti e i consuntivi possono dimostrarsi ora più sereni e meno emotivamente viscerali, tanto che potremmo convenire che è davvero questo il tempo giusto, il momento più propizio, per un “ritorno” (parafrasando il titolo del bel documentario di Luc Lager che integra magnificamente l’ottimo Dvd disponibile nei negozi). E allora… apriamo a nostra volta i cancelli della memoria, per “ripristinare il giusto contatto” e procediamo con l’indispensabile “calma riflessiva”, a una adeguata e – per quanto possibile - esaustiva rivisitazione di quest’opera che nonostante gli anni mi sembra che mantenga ancora intatta la straordinaria definizione di un inusuale e inedito “codice esplicativo del racconto”, e l’innovativa “invenzione” della costruzione, a suo modo (e in quegli anni) persino rivoluzionaria.
Hiroshima mon amour fu presentato al festival di Cannes del 1959 fra qualche polemica e molte “resistenze”, soprattutto di carattere politico. Il film di Alain Resnais e della Duras (inevitabile citarli entrambi per la complementarietà assoluta del lavoro svolto, ciascuno per le proprie competenze), come era facilmente prevedibile fece scalpore e scandalo, suscitando incomprensibili ostracismi, e altrettanto entusiasmo, oltre a qualche ingiustificata diffidenza, non solo per la sua eleganza formale, ma anche e soprattutto per i suoi dichiarati propositi di "rottura" che non si limitavano a sovvertire semplicemente le regole del racconto cinematografico, così come era stato generalmente inteso fino a quel momento, ma cercavano di ridisegnarle in maniera totalmente anticonvenzionale e liberatoria (non condizionata cioè da alcuno schema precostituito).
Innovativo e insolito, costruito com’è tutto a incastri e flashback, Hiroshima, partendo da una sceneggiatura molto letteraria e a tratti banale, pur mantenendo una struttura forte e articolata, privilegia indubbiamente e prioritariamente, la costruzione "tutta musicale" (che si confermerà una prerogativa peculiare del cinema di Resnais) del rapporto immagine-parola, una caratteristica che emerge con maggiore evidenza dalla imprescindibile visione in lingua originale, perché il doppiaggio italiano - per molti versi pregevole - di Andreina Pagnani (grandissima e rimpianta attrice nostrana) è spesso in antitesi con le intenzioni del regista, troppo "drammaticizzato" e proprio per questo qualche volta addirittura "asincronico" rispetto alle immagini e ai ritmi delle inquadrature. La voce della Riva al contrario, si dipana più tranquilla (ma non meno “tragica” e disperata), seguendo arcate e reiterazioni personalissime che si innestano alla perfezione sulla trama generale dello spartito di questo poema sinfonico articolato nei vari movimenti che ha i suoi “adagio” e le sue “impennate” improvvise, così da assumere il difficile e virtuosistico ruolo dello “strumento solista” in perfetta simbiosi esecutiva con le modalità richieste dal direttore. Questa particolare angolazione di lettura del film, fu acutamente evidenziata proprio dal critico André Hodeir con un saggio pungente e arguto intitolato appunto: Riprendere alla musica, a suo tempo reperibile anche in Italia su un ormai introvabile libro edito da Feltrinelli e curato da Vittorio Spinazzola, dal titolo Film 1961.
E' comunque singolare che in un film così "musicale" perfettamente coordinato fra voci, parole e immagini, come in una complessa partitura orchestrale, sia proprio la musica, in quanto tale, la parte forse più debole e meno pregnante dell'insieme (non disprezzabile: tutt'altro, ma sicuramente meno innovativa e “rivoluzionaria” di tutte le altre componenti dell'opera).
Il regista (e la sua co-autrice), puntando più alla "ragione" che al "sentimento" e partendo da una storia squisitamente privata, con questa pellicola, celebrando il ricordo di una “tragedia epocale”, mira a colpire ogni forma di intolleranza, sovrapponendo al dramma della ragazza di Never punita per aver amato un soldato tedesco durante l'ultima guerra, il dramma collettivo di Hiroshima e dei suoi abitanti, città devastata - praticamente distrutta - dalle tremende conseguenze del lancio della bomba atomica da parte degli americani.
La vicenda è nota: proprio a Hiroshima l'attrice francese che sta girando un film sulla pace (quale nome, insieme a Guernica, può essere più simbolico e significativo di Hiroshima?) si vede restituire a poco a poco dalla memoria gli accadimenti di un passato lontano a Nevers: il suo amore, gli incontri clandestini col soldato tedesco, la fucilata che lo uccide lungo il fiume nel loro ultimo appuntamento, la punizione subita per il suo “collaborazionismo” emotivo, la disperazione dell'assenza, la perdita della ragione, il dileggio, l'isolamento, ed infine la fuga dalla vergogna, verso Parigi, per dimenticare e riprendere a vivere, mentre i giornali annunciano la fine della guerra “grazie” alla devastazione di Hiroshima (un “dramma” che sembra assumere, lontano dalla tragedia, la dimensione della “speranza”). In questo intenso recupero, così caro all'universo poetico della Duras (la dialettica tra il bisogno di dimenticare per continuare a vivere e l'implicito dovere di ricordare) passato e presente assumono un solo volto, e l'immagine del giapponese che ha provocato il ricordo di quel lontano amore impossibile, si sovrappone a quella del soldato tedesco morto, fino a diventare un'unica lancinante presenza. Ma anche lui sarà dimenticato: l'amore di Hiroshima si corrode come quello di Nevers, ricomincerà a dolere come ricordo, come coscienza dell'impossibilità di sfidare il tempo e assumerà il contorno e la dimensione di un nuova insostenibile assenza.
Il film parte da una articolata sceneggiatura che si sviluppa a più livelli e che è stata in parte rimaneggiata e sfrondata nel corso della realizzazione filmica. Ed è proprio la parte letteraria (pur così importante nella struttura "musicale" dell'insieme, grazie anche all'eccezionale apporto della recitazione di Emmanuelle Riva che abbiamo già prima evidenziato), quella che più risente del tempo trascorso. E' ad ogni buon conto un prodotto tipico della poetica della Duras che contiene, nel bene e nel male, tutte le specificità che rendono riconoscibilissima e inimitabile, la sua scrittura sempre e comunque. Accanto a tante ingegnose intuizioni (il ricordo iniziale della tragedia di Hiroshima e dei suoi sopravvissuti, i diari di Nevers) ci sono infatti pesanti cadute di gusto e "scivolate" in dialoghi obbiettivamente adesso poco difendibili che potremmo definire ciarpame accademico. Ecco, fra i tanti, un esempio particolarmente significativo e indifendibile: Il tempo per che cosa? Per viverne? Per morirne? Il tempo per sapere. Questo non esiste. Né il tempo di viverne, né il tempo di morirne. Allora me ne infischio. Sono altresì sicuro però che una grossa fetta del successo che il film, al di là di ogni più rosea previsione, ebbe alla sua uscita sugli schermi anche al di fuori della stretta cerchia degli addetti ai lavori, sia stata proprio motivata dalla "presa emozionale" che esercitò sul pubblico la parte "letteraria" dell'opera, così in sintonia con i gusti dell'epoca, perchè permetteva, al di là dell'arditezza del contesto, la facile identificazione con i sentimenti universalmente espressi da frasi indubbiamente ad effetto, ma di sicura “presa emotiva” del tipo: Da quattordici anni non ritrovavo il gusto di un amore impossibile oppure: Mi piaceva il mio sangue da quando avevo gustato il tuo. La sublimazione liricizzante della storia, compensava quindi l'oggettiva difficoltà (per molti) a “seguire il percorso” derivante dalla rivoluzionaria impostazione visiva atemporale e onirica, tutta scandita sul flusso delle immagini non cronologicamente coordinate, ma liberamente associate fra loro come in un rompicapo mnemonico. Certo, vedendo adesso il film, si stenta forse un pò a capire pienamente la portata innovativa dell'opera (lo stile imposto all’andamento delle immagini, la differente luminosità delle riprese di Nevers da quelle di Hiroshima, dovuta all'utilizzo di due operatori diversi, e soprattutto la rottura del rapporto spazio-tempo che lascia affluire sullo schermo frammenti di visioni, come brevi sussulti di ricordi, quali pezzi di un puzzle in progressiva, ma non coerente costruzione) e lo shock indubbiamente fortissimo provato dallo spettatore medio. Nel cinema odierno infatti, la frammentazione del tempo, i salti e gli incastri o le arditezze formali, sono ormai procedure ampiamente acquisite e digerite che possono supportare, senza alcun riferimento allo stile e al contenuto, anche opere di esclusiva e assoluta valenza "commerciale". Non era invece così nel 1959, epoca in cui, nonostante Quarto potere, si ricorreva ancora quasi esclusivamente a tecniche semplificative totalmente codificate e facilmente comprensibili (come il “tremolare del fotogramma” o la voce fuori campo, la dissolvenza incrociata, o persino l’utilizzo, fortemente insistito e sottolineato, dell’“associazione di immagini” evocativamente complementari) che aiutavano lo spettatore a capire il passaggio dal presente al passato, e viceversa. Non va dimenticato a questo proposito, che per il quasi contemporaneo (ma successivo di alcuni anni) 8 e 1/2 di Fellini, dopo le prime perplesse reazioni del grosso pubblico, in affanno evidente e non sempre disponibile a lasciarsi andare per “imparare” da solo a districarsi nell’aggrovigliata materia, il produttore, preoccupato per un possibile insuccesso commerciale, decise di intervenire sulle copie in circolazione ricorrendo all'espediente di virare con colori diversi le scene del sogno e quelle del ricordo, lasciando in bianco e nero solo quelle della realtà, banalizzando così tutto l'operato del regista, e ottenendo quale unico risultato, quello di confondere ancor più le idee per la difficoltà oggettiva di distinguere perfettamente i vari piani temporali, spesso incastrati a spirale fra loro.
Per rimarcare ulteriormente la valenza innovativa di Hiroshima, è sufficiente a mio avviso ricordare prioritariamente proprio la lunga sequenza iniziale delle spalle nude di un uomo abbracciate – quasi arpionate - da due mani di donna (immagini indistinte, deformate, impalpabili e pur concrete, degli amanti) alle quali si alternano visioni di un documentario impietoso e crudele e si “sovrappone” il dialogo scandito con impersonale e uniforme scansione armonica – quasi una aritmia atonale - del racconto di quell’esperienza traumatica: …Quattro volte al museo a Hiroshima. Ho visto la gente passare. Ho visto la gente passare pensierosa davanti alle fotografie, alle ricostruzioni, in mancanza di altro, alle spiegazioni in mancanza di altro…. Sarà poi la visione dell'amante addormentato, una furtiva analogia nel suo atteggiamento (disteso con le braccia lungo il corpo, la posizione rilasciata della mano) a far ritornare in un lampo il ricordo del primo amore, a fare rimaterializzare l'immagine dolorosa del tedesco ucciso fra le sue braccia. A questo punto l'identificazione tra le due storie sarà completa e inarrestabile, e la fusione del passato con il presente, irreversibile: Tu non eri affatto morto… Ormai ho raccontato la nostra storia… Vedi, potevo raccontarla… Guarda come ti dimentico…", o in ogni caso tale da determinare quasi la necessità dell’annullamento della frattura spazio-temporale: Ti dimenticherò! Ti ho già dimenticato… per arrivare finalmente - forse - all'oblio definitivo per la consunzione di tutte le residue reminiscenze con il loro bagaglio di dolore compresso, e acquisire una dimensione astrattamente universale degli avvenimenti che ancora una volta però non potrà che contrapporre e unificare l’umanità lacerata di queste due sofferte esistenze incrociate, in simbiosi quasi assoluta con le loro origini geografiche fino a farne un amalgama inscindibile e non più districabile: Hi-ro-shi-ma… è il tuo nome. E il tuo è Nevers… Nevers-en-France.
Non rimane adesso che da sottolineare nuovamente il contributo fondamentale di Emmanuelle Riva, presenza totalizzante e assoluta, del tutto assimilata al personaggio, che non ha avuto alcuna remora a mettersi in discussione non solo come "interprete”, ma anche come "donna" e persona affrontando un’esperienza singolare che va ben oltre il “mestiere dell’attrice”. E l'indissolubile legame del personaggio con colei che lo rappresenta, è ravvisabile proprio nella stesura della sceneggiatura (a suo tempo pubblicata da Einaudi nella collana I Coralli con la traduzione in italiano di Pierre Denivelle-Serra). Infatti, in uno dei monologhi più significativi e riflessivi, nell'alternanza mnemonica dei flussi del ricordi fra Nevers e Hiroshima, le parole non vengono più attribuite al personaggio di finzione, ma alla sua interprete. Cito testualmente dal copione: SUCCESSIONE DI STRADE DI HIROSHIMA E DI NEVERS. MONOLOGO INTERIORE DI EMMANUELLE RIVA: t'incontro, mi ricordo di te…Questa città era fatta proprio per l’amore. Tu eri fatto proprio per il mio corpo. Chi sei? etc. etc . E’ evidente l'osmosi assoluta, tanto da poter ipotizzare (e credo che non sia davvero un azzardo) che senza la Riva non ci sarebbe stato il film (o comunque ne sarebbe venuta fuori un’altra cosa).
Una grande partitura concertistica quindi quella che ci è dato di “ascoltare”, non solo con le orecchie, ma anche, e soprattutto, attraverso la percezione delle immagini. Una costruzione sinfonica che sviluppa e reitera i propri temi fra “impennamenti” ed “avvitamenti” a ritroso, che rappresenta davvero una tappa fondamentale (una pietra miliare direi) per la ridefinizione della sintassi cinematografica, che diventa qui a tutti gli effetti “avanguardia” e arte composita polifunzionale.
Citando ancora il saggio di Hodeir sopra menzionato, mi piace infine concludere proprio con le sue parole, perché non saprei trovarne di più appropriate e “definitive”: Altri cineasti subiranno lo choc del film di Resnais, e appariranno sugli schermi opere che ieri non sarebbero state possibili. Il cinema incomincia, incomincia appena. Spetterà ai creatori futuri dimostrarci se è possibile, secondo la profetica espressione di Mallarmée, “reprendre à la musique son bien”. Quei tempi sono venuti. E allora, voi che ne pensate? Si accettano scommesse!!!!



"Hiroshima mon amour" fu presentato al festival di Cannes del 1959. Il film di Alain Resnais e della Duras fece rumore, non solo per la sua eleganza formale, ma anche e soprattutto per i suoi dichiarati propositi di "rottura" che non si limitavano a sovvertire le regole del racconto cinematografico, così come era inteso fino a quel momento. Sicuramente Hiroshima, partendo da una sceneggiatura molto letteraria e a tratti banale, pur mantenendo una struttura forte e articolata, privilegia la costruzione "tutta musicale" del rapporto immagine-parola, particolarmente avvertibile nella indispensabile visione in lingua originale (il doppiaggio italiano per molti versi pregevole di Andreina Pagnani, è spesso in antitesi con le intenzioni originali, troppo "drammaticizzato" e proprio per questo qualche volta addiritttura "asincronico" rispetto alle immagini e ai ritmi delle inquadrature. La voce della Riva al contrario, si dipana più tranquilla (ma non meno coinvolgente), seguendo arcate e ritorni, e diventa così l'indispensabile strumento solista all'interno di un poema sinfonico articolato nei vari movimenti. Questa particolare angolazione di lettura del film, fu argutamente evidenziata dal critico Andrè Hodeir in un articolo pubblicato subito dopo l'uscita nelle sale francesi, intitolato appunto: "RIPRENDERE ALLA MUSICA..." reperibile in Italia su un ormai introvabile libro edito da Feltrinelli e curato da Vittorio Spinazzola, dal titolo "Film 1961". E' comunque singolare che in un film così "musicale" perfettamente integrato fra voci, parole e immagini, come in una complessa partitura orchestrale, sia proprio la musica, in quanto tale, la parte più debole e meno pregnante dell'insieme (non disprezzabile: tutt'altro, ma sicuramente meno innovativa e stimolante di tutte le altre componenti dell'opera). Il regista e la sua co-autrice, puntando più alla "ragione" che al "sentimento" e partendo da una storia squisitamente privata, mira a colpire ogni forma di intolleranza, sovrapponendo al dramma della ragazza di Never punita per aver amato un soldato tedesco durante l'ultima guerra, il dramma collettivo di Hiroshima e dei suoi abitanti, città devastata - praticamente distrutta - dalle tremende conseguenze del lancio della bomba atomica da parte degli americani. La vicenda è nota: proprio a Hiroshima l'attrice francese che sta girando un film sulla pace (quale nome, insieme a Guernica, può essere più simbolico e significativo di Hiroshima?) si vede restituire a poco a poco dalla memoria le vicende di Nevers: il suo amore, gli incontri clandestini col soldato tedesco, la fucilata che lo uccide lungo il fiume nel loro ultimo appuntamento, la punizione subita, la disperazione dell'assenza, la perdita della ragione, il dileggio, l'isolamento, ed infine la fuga dalal vergogna, verso Parigi, per dimenticare e riprendere a vivere, mentre i giornali annunciavano la fine della guerra e la distruzione di Hiroshima. In questo intenso recupero, così caro all'universo poetico della Duras (la dialettica tra il bisogno di dimenticare per continuare a vivere e l'implicito dovere di ricordare) passato e presente assumono un solo volto, e l'immagine del giapponese che ha provocato il ricordo di quel lontano amore impossibile, si sovrappone a quella del soldato tedesco morto, fino a diventare un'unica lancinante presenza. Ma anche lui sarà dimenticato: l'amore di Hiroshima si corrode come quello di Nevers, ricomincerà a dolere come ricordo, come coscienza dell'impossibilità di sfidare il tempo. Il film parte da una articolata sceneggiatura che si sviluppa a più livelli e che è stata in parte rimaneggiata e sfrondata nel corso della realizzazione filmica. Ed è proprio la parte letteraria (pur così importante nella struttura "musicale" dell'insieme, grazie anche all'eccezionale apporto della recitazione di Emmanuelle Riva, come sopra detto), quella che più risente del tempo passato. E' ad ogni buon conto un prodotto tipico della poetica della scrittrice che contiene, nel bene e nel male, tutte le caratteristiche peculiari che contraddistinguono la sua opera. Accanto a tante ingegnosi intuizioni (il ricordo iniziale della tragedia di Hiroshima e dei suoi sopravvissuti, i diari di Nevers) ci sono infatti pesanti cadute di gusto e "scivolate" in dialoghi obbiettivamente adesso poco difendibili (es.: "IL TEMPO PER CHE COSA? PER VIVERNE? PER MORIRNE? IL TEMPO PER SAPERE. QUESTO NON ESISTE. Nè IL TEMPO DI VIVERNE, Nè IL TEMPO DI MORIRNE. ALLORA ME NE INFISCHIO.") Sono certo però che una grossa fetta del successo che il film, al di là di ogni più rosea previsione, ebbe alla sua uscita sugli schermi anche al di fuori della stretta cerchia degli addetti ai lavori, sia proprio dovuta alla "presa emozionale" che ebbe sul pubblico la parte "letteraria" dell'opera, così in sintonia con i gusti dell'epoca, perchè permetteva, al di lè dell'arditezza del contesto, la facile identificazione con i sentimenti universalmente espressi da frasi ad effetto del tipo: "DA QUATTORDICI ANNI NON RITROVAVO IL GUSTO DI UN AMORE IMPOSSIBILE" oppure: "MI PIACEVA IL MIO SANGUE DA QUANDO AVEVO GUSTATO IL TUO". La sublimazione poetica della storia compensava quindi l'oggettiva difficoltà (per molti) derivante dalla rivoluzionaria mpostazione visiva atemporale e onirica, scandita sul flusso delle immagini non cronologicamente coordinate, ma liberamente associate. Certo, vedendo adesso il film, si stenta forse un pò a capire pienamente la portata innovativa dell'opera (lo stile poetico delle immagini, la differente luminosità delle riprese di Nevers da quelle di Hiroshima, dovuta all'utilizzo di due operatori diversi, e soprattutto la rottura del rapporto spazio-tempo che lascia affluire sullo schermo frammenti di visioni, come brevi sussulti di ricordi, quali pezzi di un puzzle in progressiva, ma non coerente costruzione). Nel cinema odierno infatti, la frammentazione del tempo, i salti e gli incastri visivi o le arditezze formali, sono ormai procedure ampiamente acquisite e digerite che possono supportare, senza alcun riferimento allo stile e al contenuto, anche opere di esclusiva e assoluta valenza "commerciale". Non era invece così nel 1959, epoca in cui si ricorreva ancora quasi esclusivamente a tecniche che aiutavano lo spettatore a capire il passaggio dal presente al passato, e viceversa, o il ricordo per associazione di immagini, aiutato "tecnicamente" dal tremolare del fotogramma o dalla dissolvenza incrociata sia in entrata che in uscita. Non va dimenticato a questo proposito, che per il quasi contemporaneo (ma successivo di alcuni anni) "8 e 1/2" di Fellini, dopo le prime perplesse reazioni del grosso pubblico per la difficoltà a comprendere cosa era realtà, cosa ricordo, cosa immaginazione e sogno, il produttore, preoccupato per un possibile insuccesso commerciale, decise di intervenire sulle copie in circolazione ricorrendo all'espediente di virare con colori diversi le scene del sogno e quelle del ricordo, lasciando in bianco e nero sollo quelle della realtà, banalizzando così tutto l'operato del regista, e ottenendo quale unico risultato, quello di confondere ancor più le idee per la difficoltà oggettiva di distinguere perfettamente i vari piani temporali, spesso incastrati a spirale fra loro. Per sottolineare la valenza innovativa di Hiroshima, è sufficiente a mio aavviso ricordare la lunga sequenza inziale delle spalle nude di un uomo abbracciate da due mani di donna (immagini indistinte, quasi deformate, impalpabili e pur concrete, degli amanti) alla quale si alternano visioni di un documentario impietoso e crudele e si sovrappone il dialogo scandito con impersonale e uniforme scansione ritmica, del racconto della tragedia di Hiroschima: "...QUATTRO VOLTE AL MUSEO A HIROSHIMA. HO VISTO LA GENTE PASSARE. HO VISTO LA GENTE PASSARE PENSIEROSA DAVANTI ALLE FOTOGRAFIE, ALLE RICOSTRUZIONI, IN MANCANZA DI ALTRO, ALLE SPIEGAZIONI IN MANCANZA DI ALTRO...". Sarà poi la visione dell'amante addormentato, una furtiva analogia nel suo atteggiamento (disteso con le braccia lungo il corpo, la posizione rilasciata della mano) a far ritornare in un lampo il ricordo del primo amore, a fare rimaterializzare l'immagine dolorosa del tedesco ucciso fra le sue braccia, e a questo punto l'identificazione tra le due storie è completa e inarrestabile: "TU NON ERI AFFATTO MORTO.... ORMAI HO RACCONTATO LA NOSTRA STORIA... VEDI, POTEVO RACCONTARLA.... GUARDA COME TI DIMENTICO..." fino alla poetica conclusione che porterà al superamento del dolore e - forse - all'oblio finale: "TI DIMENTICHERO'! TI HO GIA' DIMENTICATO..." e poi, sulle ultimissime immagini: "HI-RO-SHI-MA.. E' IL TUO NOME. / E IL TUO E' NEVERS... NEVERS-EN-FRANCE..". Non rimane adesso che da sottolineare nuovamente il contributo fondamentale di Emmanuelle Riva, presenza totalizzante e assoluta, del tutto identificata col personaggio, che non ha avuto paura a mettersi in discussione non solo come "interprete2, ma anche come "donna" e persona. E l'indissolubile legame del personaggio con l'attrice, è ravvisabile proprio dalla stessura della sceneggatura (a suo tempo pubblicata da einaudi nella collana I Coralli). Infatti, in uno dei monologhi finali, nell'alternanza mnemonica dei flussi del ricordi fra Nevers e Hiroshima, le parole non vengono più attribuite al personaggio di finzione, ma alla sua interprete. Cito testualmente: "SUCCESSIONE DI STRADE DI HIROSHIMA E DI NEVERS. MONOLOGOINTERIORE DI EMMANUELLE RIVA: t'incontro / mi ricordo di te / etc. etc:" . A questo punto, l'osmosi e completa, tanto da poter ipotizzare che senza la Riva non ci sarebbe stato il film. Una grande partitura musicale quindi, una sinfonia con i suoi movimenti e le sue pause, una pietra miliare nella evoluzione del linguaggio cinematografico e nella sua elevazione da semplice mezzo di comunicazione visiva ad 'arte'. Mi piace a questo punto concludere citando ancora il saggio di Hodeir sopra menzionato . "ALTRI CINEASTI SUBIRANNO LO CHOC DEL FILM DI RESNAIS, E APPARIRANNO SUGLI SCHERMI OPERE CHE IERI NON SAREBBERO STATE POSSIBILI. IL CINEMA INCOMINCIA, INCOMINCIA APPENA. SPETTERA' AI CREATORI FUTURI DIMOSTRARCI SE E' POSSIBILE, SECONDO LA PROFETICA ESPRESSIONE DI MALLARMé, 'REPRENDRE à LA MUSIQUE SON BIEN'." Questo, nel lontano 1959.

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