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Orecchie

Regia di Alessandro Aronadio vedi scheda film

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La recensione su Orecchie

di OGM
8 stelle

Sentire un fischio insistente. Credere che sia lì il mistero. E non sapere che non è quello il problema.

Dentro di te. La voce che senti è confusa, ma sta cercando di dirti la verità. C’è uno strano rimbombo interiore che non ti dà pace, e si sovrappone fastidiosamente al rumore del mondo, fino a renderlo inudibile. In fondo, è proprio quello che vuoi: non sentirci. Essere sordo al caos, che non puoi fare  a meno di vedere, ovunque tu rivolgi lo sguardo, e che vorresti tanto trasformare in un film muto. Solo così, limitandoti a inquadrare quelle buffe facce, deformate dalle grasse risate e dagli accessi di follia, potresti trovare lo spettacolo divertente. Almeno un po’, almeno in superficie, come quando non ci si pensa troppo su. Questo bianco e nero riporta la visione alla stralunata e plastica essenzialità della cinema dei primordi, tutto mimica e mossette, caricatura delle emozioni, oleografia dell’imbarazzo. Una realtà orfana di parole si dedicava allora all’iperbole dell’espressività, quella che falsa l’essere, squassa la normalità, andando oltre la recitazione, verso un virtuosismo da clown impazzito. Il protagonista di questa storia trascina la sua malinconia attraverso questo monocromatico tunnel dei piccoli orrori quotidiani, facendo da eterno spettatore ad un girandola di uomini  e donne che seguono le regole di un gioco a cui lui non è stato invitato, se non come vittima sacrificale, come zimbello che non capisce, ma intanto tace. Le cose accadono, intorno a lui, contro di lui, su di lui, ma mai per lui. La sua presenza – che, non a caso, è priva di un nome – è definita solo come negazione del resto, di quello che, in ogni possibile senso (sentimentale, professionale, artistico, commerciale, religioso)  è semplicemente il tutto della vita che scorre. Lo chiamano per sbaglio, e per sbaglio lo cercano. Non fa ciò che gli altri si aspettano da lui. Non c’è quando dovrebbe esserci, e viceversa. È il malato che i medici considerano un sano rompiscatole. L’uomo amato che si crede fonte di infelicità. Il figlio che non si lascia aiutare. L’amico di cui nessuno ha bisogno, se non per chiedergli ciò che non è in grado di dare. Lo scollamento è completo. È prodotto da una parete insonorizzata, che divide un sé sempre più attonito e vuoto da una moltitudine di corpi che si muovono al di là del vetro come pesci in un acquario, curiosi da osservare, ma impossibili da avvicinare. Il nostro innominato resta a boccheggiare in un’aria sempre più rarefatta, anziché provare a tuffarsi e iniziare a respirare nell’acqua. Quello che, ad altre orecchie, potrebbe suonare come l’invito ad una nuova avventura, per lui ha la cadenza stonata di un compromesso. Crede che la sopravvivenza non sia adattarsi, bensì chiamarsi fuori. L’ostinato rifiuto non fa, però, che ribadire il paradosso in cui quell’uomo vive (il non-signor Spina, il non-conoscente di Luigi, affetto da una non-malattia, senza macchina, né soldi, né fede, né niente di niente). È lo specchio deformante che capovolge le figure, che trova indesiderabile qualsiasi cosa gli venga offerta, tramutando lo stupore in paura, le occasioni in incubi. Il messaggio è forte, carico di un contenuto sociologico disperato, traboccante di lacrime infantili, urlante dal profondo di un’anima  disarmata, estranea ad ogni tipo di guerra – anche quella combattuta per scherzo -  perché primitivamente pacifica. Il film di Alessandro Aronadio  non lascia, però che quel grido giunga fino a noi: mantiene, nei fatti, un allusivo silenzio, per non turbare l’incanto impaziente di chi romanticamente si strugge, assistendo alla ballata di un mondo bizzarro che se ne inventa di cotte e crude,  pur di non cambiare registro.    

 

Daniele Parisi

Orecchie (2016): Daniele Parisi

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