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Bitter Money

Regia di Wang Bing vedi scheda film

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La recensione su Bitter Money

di OGM
7 stelle

Essere in tanti. Essere nessuno. Non contare nulla. Il prezzo amaro della sopravvivenza.

Soldi di carne. Profitti costruiti sulla fatica altrui, sui corpi strappati alla vita, ammassati in casermoni invivibili, costretti a scandire il tempo dell’esistenza con i ritmi della produzione senza fine. Il made in China è un abisso di sfruttamento, che consente a tanti di mangiare, vestirsi ed andare avanti, ma che si ciba della loro umanità. Questo documentario segue ossessivamente i suoi protagonisti, nella speranza di poter cogliere, nei loro discorsi e gesti svuotati di calore, qualche residuo brandello di pensiero, di sentimento, di emozione. Tagliare e cucire vestiti. Attaccare etichette ai capi, imballarli nella pellicola trasparente. Ognuno ha il suo ruolo, che gli è stato assegnato a caso, come ad un elemento qualunque dell’ingranaggio, interscambiabile a piacere. Il lavoro più degradante è quello anonimo, di fronte al quale si è uno fra mille, ossia nessuno. Eppure quelle persone hanno nomi e storie da raccontare; sono cose appartenenti ormai ad un mondo lontano, che hanno dovuto lasciarsi alle spalle. Troppo angusti sono gli spazi in quegli alveari di cemento in cui si sta uno appiccicato all’altro, appaiato a casaccio, come sullo scaffale di un magazzino. La promiscuità non crea comunanza. Ovunque regna solo il caos di una intimità di cui si è fatto scempio, riducendola ad un panno steso in mezzo a un corridoio. La miseria della provincia rurale, nella grande città, si converte in una catena di montaggio del riscatto, dove tenersi a galla è l’unica regola da seguire, non importa come. Tutti pagano un prezzo amaro, in termini di solitudine, alienazione, frustrazione, follia. Eppure sembra che quello sia parte di un gioco a cui non ci sono alternative. L’industrializzazione, che per il consumatore dà forma al mito  della moda a basso costo, dell’assortimento ricco e a portata di mano, per la manovalanza cinese significa l’annullamento di ogni cultura del lavoro, la rescissione di qualsiasi rapporto con il bene realizzato, conformato ai modelli senza patria della globalizzazione. L’abilità manuale conta solo in quanto garanzia di efficienza. La bravura ha cessato da un pezzo di essere arte, la fantasia individuale si è fatta azzerare dai meccanici dettami della ripetizione identica e perfetta. La nuova ricchezza è un vortice che ha l’effetto freddamente ipnotico di un caleidoscopio dai colori spenti: l’incanto è paralizzante, come la gelida magia delle mani che riescono, all’infinito, ad essere rigorosamente ed impeccabilmente obbedienti e solerti. Il retroscena del fashion è un paesaggio di gente stanca e stracci appesi. Un grigiore appena striato dal tiepido sorriso di chi è grato di esserci, di servire a qualcosa, di non essere stato scartato, di potersi dire funzionante, forte, affidabile, mentre da qualche parte, là fuori, incombe il nero orizzonte di una fame che si annida, tenace, nelle remote contrade dell’oblio. 

 

scena

Bitter Money (2016): scena

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