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Split

Regia di M. Night Shyamalan vedi scheda film

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M Valdemar

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La recensione su Split

di M Valdemar
7 stelle

 

locandina

Split (2017): locandina

 



«Chi ha sofferto è più evoluto. Gioisci, gioisci!»

Non un film-cervello né una depalmiana riflessione virtuosistica sul mezzo.
Piuttosto, un testo denso su più strati.
Alla maniera shyamalaniana.
(Finalmente!)
Innesco, la dimensione – basica, familiare, abusata, banale – del rapimento di giovani belle ragazze: un classico, un luogo sicuro senza possibilità di ulteriore decodifica. La dolce brusca virata sul (sempre affascinante) “gioco” delle personalità multiple – nominalmente 23, ma ne bastano molte meno - è un'avanzata rischiosa, apparentemente caotica e autoalimentata, un richiamo ferino, un'adunata al quale il lettore/spettatore/vittima non può sottrarsi.
Il regista-demiurgo, tornato alle origini – e al buon senso (sì, inguardabile The Last Airbender; ridicolo After Earth; mediocre il sopravvalutato The Visit) –, prepara e inscena, con la maniacale e certosina dedizione del dissezionatore di corpi e psiche, il teatrino sadico del quale il sempre bravo James McAvoy è assoluto dominat(t)ore: dissociarsi – più e più volte -, spezzettarsi, ossessionare, inquietare con naturalezza, scatenare una ghignante caccia alla (impura) lepre è un attimo.
Bestiale.
Come gli occhi da rapace interrotto di Anya Taylor-Joy – fenomenale, magnetica presenza evocativa di grazia, forza e fragilità antiche -, preda designata i cui flashback le disegnano però un'infanzia e un'esistenza tutt'altro che spensierate (al contrario delle altre due compagne di esperienza).
Ecco.
Se il meccanismo delle molteplici identità – non manca ovviamente la figura di un'illuminata psicologa – si prende tutta una prima parte (non sempre omogenea nei tempi e nei ritmi) scoprendo e palesando apertamente la straordinarietà di un individuo fuori dai canoni (addirittura teorizzando la “superiorità” in/di esseri così diversi, speciali), e mentre lo spettacolo perverso del gatto malvagio con le tope/pupe solletica brandelli cerebrali meno nobili, emerge progressivamente – suadente dapprima, sotterraneo, poi pulsante e ossessivo, feroce, come un componimento degli Opeth – il senso ultimo.
Split – spleen ispirato di un autore dallo sguardo sempre (eccetto quanto sopra, ça va sans dire) leggiadro, verginale, raffinato (tanto più quanto la materia si fa oggetto angosciante e tetro) – nel disvelare alfine lo strato significante – più che il twist che ben conosciamo o un mero coup de théâtre – , evolve in studio ardito sulla umana natura.
Perché, «noi siamo quello che crediamo di essere»: finanche, un ibrido ignoto non solo di più personalità sorte a protezione di una coscienza dilaniata nel profondo, ma pure di una congiunzione con la realtà animalesca (che ci circonda ed è insita in noi).
Una trasformazione belluina in punta di (dis)armonia – sospesa tra inquadrature discrete e sequenze fluide, che attengono a una carnalità sensuale e terribile – tesa a schivare le pallottole della retorica della spettacolarizzazione per azzannare un viscerale sentimento di identificazione e riconoscibilità: nell'incontro (splendido, per intensità e sensibilità sia degli interpreti che della messa in scena) tra la bestia e la bella – entrambi sofferenti, tormentati, sbranati all'origine -, l'opera dispiega le ali mostrando il suo vero volto.
Non tutto magari funziona – tra una prima parte che presenta situazioni diluite, non sempre a fuoco, e mancando un po' in quel tipico senso di stringente, avvolgente ineluttabilità di altri film (da Unbreakable a Signs fino al meno riuscito E venne il giorno) – ma Split rivela una vitalità, una qualità di scrittura e una capacità di incidere l'immaginario rinnovate.
E quel finale, poi: una zampata geniale.

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