Regia di Nikita Mikhalkov vedi scheda film
Uno dei maggiori registi russi racconta una storia vera, raccapricciante, avvenuta negli anni più bui dell'Unione Sovietica.
La prima volta che lo vidi mi lasciò un po' perplesso. Rivisto adesso, però, credo di averlo capito e apprezzato di più. Il titolo significa letteralmente “stanchi del sole”, ed è preso da una canzone dell'epoca in cui è ambientata la trama. Va anche precisato che ora ho visto la versione integrale, più lunga di circa 20 minuti rispetto a quella passata nei cinema e in televisione.
Mihalkov recupera lo stile e l'ambientazione di uno dei suoi capolavori, cioè “Partitura incompiuta per pianola meccanica”, e li rielabora con contenuti diversi: casetta di campagna, familiari e amici che passano qualche giorno di riposo, tensioni sotterranee e nascoste, e la loro esplosione finale.
Ci tengo, tuttavia, a fare un breve riassunto della trama.
Il periodo in qui è ambientata la pellicola è quello delle purghe staliniane (1936-38), quando chiunque poteva venire arrestato di punto in bianco e portato via, senza processo e in certi casi senza imputazione (c'era una legge che lo permetteva). Il protagonista, interpretato dallo stesso regista, è un ufficiale dell'esercito sovietico (un personaggio realmente esistito) il quale, fino a quel giorno, ha goduto di un'ottima reputazione e ha potuto vantare un'amicizia personale con Stalin, al punto da possedere alcune fotografie in sua compagnia, e il numero di telefono diretto del suo ufficio. Un certo giorno, chissà perché, “l'uomo di acciaio” - questo il significato del soprannome Stalin - decide di farlo arrestare, e di incaricare dell'operazione un ex-ragazzo orfano che era vissuto in casa sua, e poi aveva fatto carriera nella polizia segreta. Così, questo bellimbusto, con sommo cinismo, si reca in avanscoperta alcune ore prima fingendo una visita di cortesia, e rivelando solo al diretto interessato i veri motivi della sua ricomparsa. Si crea quindi una situazione paradossale e quasi beffarda, dove la tragedia si dipana dietro una maschera di allegria e convivialità, mentre in realtà l'aguzzino aspetta solo l'ora prefissata, quando, cioè, è attesa la macchina con gli agenti che porteranno via l'ex-beniamino del dittatore. Il “dovere” di poliziotto si mescola, inoltre, agli eventi pregressi che avevano visto lui fidanzato (egoista e sfuggente) dell'attuale moglie del protagonista.
Questa pellicola, se da una parte è apparentemente povera dal punto di vista narrativo, è in realtà ricca di braci sotto la cenere, di amarissima ironia, e dotata di una capacità di mostrare la tragedia e il male sotto il loro aspetto più dissimulato, beffardo e forse banale. E la “banalità del male”, di certo male, lascia forse più spiazzati e sconquassati di quello urlato in faccia. Una delle scene finali, ad es. vede l'arrestato brutalmente picchiato in macchina dai poliziotti per un nonnulla, dopo essere stato prelevato apparentemente con i guanti di velluto. Secondo me è una scena violentissima, anche se rimane fuori campo, e mi ha fatto stringere lo stomaco. Con quale pacatezza, poi, Stalin avrà firmato l'ordine d'arresto del suo amico? Il destino del camionista, infine, non è da meno: rimasto in panne con il camion in mezzo alla strada, viene scambiato per uno che vuole tendere un'imboscata per liberare l'arrestato, e trattato di conseguenza.
Al regista faccio due rimproveri, che fanno perdere una stelletta al suo film. Uno è di aver fatto recitare sua figlia di cinque anni: la bambina è simpatica, ma a tratti leziosetta, e certi duetti con il padre sono un po' compiaciuti e ammiccanti. Con un'altra bambina, probabilmente, ciò sarebbe stato evitato. L'altro è l'idea del fulmine a forma di palla (dicono che sia un fenomeno raro, ma reale): è uno stacco troppo forte, o uno strappo, rispetto ad un film basato su eventi quotidiani e privo di effetti speciali. Come giustamente insegnava Umberto Eco, in un libro o un film gli eventi devono rispettare il registro generale dell'opera, o l'ambiente; è come un contratto che si fa all'inizio con il lettore o lo spettatore. Il gonfalone con l'immagine di Stalin, altrove criticato, tutto sommato è intonato con il resto, e calato nella trama con i dettagli necessari.
Il vero Sergej Kotov fu subito fucilato, mentre la moglie e la figlioletta furono arrestate poco dopo. Solo la figlia, mandata in un orfanotrofio, si salvò. Tutta la famiglia fu completamente riabilitata nel 1957, insieme a tanti altri perseguitati.
La pellicola fu co-prodotta dal regista e da uno studio francese, senza la celebre Mosfilm di Mosca, e forse solo grazie a ciò poté essere prodotta. Nel 1994, infatti, la Russia era allo sfascio e i finanziamenti di sostegno al cinema erano minimi. Il successo della pellicola avrebbe ripagato gli sforzi.
Mi sento di credere che, forse, alcune delle critiche negative su questo film non ci sarebbero state, se tutti avessero potuto vedere la versione integrale. Quella tagliata, inevitabilmente, rende meno comprensibile il sottile intreccio di relazioni tra i personaggi.
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta