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Barriere

Regia di Denzel Washington vedi scheda film

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La recensione su Barriere

di leporello
7 stelle

   Quali barriere? La sceneggiatura le dissemina un po’ dovunque. Questa benedetta palizzata che Troy Maxson ha in animo di costruire nel suo giardino salta fuori qua e là, spesso, ora da un discorso, ora da un altro, ora da un semplice “flash” della memoria. Ma il titolo dell’opera è giustamente declinato al plurale, perché quella fatta di assi di legno (e mai terminata) è solo una delle barriere possibili.

   Oltre a quella protettiva che dovrebbe recintare la casa della famiglia Maxson, nella vita di questa c’è la barriera contro le ingiustizie vissute e contro la paura, spesso ormai irrazionale , che da queste ingiustizie deriva. C’è la barriera che separa “il mio dal tuo” dentro la medesima famiglia: Troy che rivendica il suo “spazio privato”  ad una moglie che pure è fin troppo buona anche soltanto per poterlo indovinare; Cory, il figlio dei due, che vuole separare le aspirazioni della propria adolescenza da quelle frustrate dell’adolescenza vissuta (forse subita) dal padre; o  il figlio maggiore Lyons, avuto da Troy con un’altra donna, musicista squattrinato, che non riuscirà mai a convincere suo padre a varcare quel confine  oltre il quale si nasconde quella stima reciproca che è pure evidentemente possibile anche al di qua dello steccato.
   E poi c’è la “barriera” sociale, multiforme: sono ancora “negri” gli operai di Pittsburgh negli anni cinquanta (oddio, tra parentesi... lo sono ancora oggi anche qua in Brianza... chiusa parentesi), e sono da tenere al di là di un limite invisibile i  malati di mente come lo zio Gabriel, un limite che è al tempo stesso fuori e dentro la coscienza di Troy. Ed è un istinto irrefrenabile di autodifesa il senso del possesso, la gelosia, il non frenarsi dal rivendicare come “propria” l’esistenza di un’altra persona diversa da te, per quanto coniuge, o figlio, o figlia, la difficoltà tutta umana nell’accettare  che diverse famiglie si incrocino in pacifiche convivenze (su questo, maestosa e potente, si ergerà nel finale la figura ormai  quasi santificata di Rose, a mio avviso la vera protagonista della vicenda, la ”materia oscura” che vitalizza in background le  mosse ed i pensieri di Troy).
   E infine c’è la “barriera” più grande, quella fra Noi e la Morte, una morte con la quale il protagonista parla normalmente come farebbe con un essere umano, cercando ostinatamente  di tenerla fuori per sempre dal suo giardino, e che lo coglierà di sorpresa con uno di quegli “strike-out” in grado di annientare qualunque campione.
   Questo “Fences” è a mio avviso un ottimo film “di pensiero”. Certamente si basa, e a sua volta “si difende” con un testo letterario e teatrale a prova di bomba; certamente non era Denzel Washington, il cui tratto attoriale drammatico non sarebbe mai (e non è) in grado di raggiungere picchi così elevati, il “nigger” giusto per trasportare questa vicenda al cinema. Però da regista se la cava davvero bene, prova ne sia l’assoluta mancanza di “pesantezza” dopo quasi due ore e mezza di visione. Meritatissimi i riconoscimenti vari ottenuti da Viola Davis, ai quali affiancherei di buon grado i meriti di tutto un cast davvero efficace.

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