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Cane di paglia

Regia di Sam Peckinpah vedi scheda film

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La recensione su Cane di paglia

di lamettrie
9 stelle

Un film tecnicamente eccellente. Non sono uno cui piace la violenza, neppure sottilmente o lontanamente: questo film ne mostra comunque tutte le possibilità, a livello psicologico e sociologico. Poiché fa toccare con mano tutti gli abissi della violenza fisica e mentale, ritengo che proibirlo solo ai minori di 14 anni sia un po’ poco.

Il livello è da grande tragedia greca: per quanto disturbante, mette in scena delle orride possibilità che sono tutt’altro che possibili solo nella fantascienza. Quello che lo spettatore si auspica che non debba succedere, invece succede in lungo e in largo: il malato di mente, buono e innocuo, uccide la ragazzina, senza volerlo (e ciò rientra però nelle possibilità della sua patologia).

La bestialità la fa sempre da padrona: si vuole linciare un minorato di mente che non ha reali colpe; mentre sono ubriachi (del resto sono sempre a bere, quattro ignoranti da strapaese), i membri del branco vogliono uccidere e in più vogliono spaccare tutto, come veri teppisti.

Le atmosfere sono sovente da Hitchcock modernizzato ed estremizzato: i silenzi, gli interni, le risonanze psicologiche rendono questa forse un’opera da teatro prestata al cinema. Infatti la sceneggiatura, tratta da un romanzo, è ottima, pur trattando di situazioni molto “semplici”, ovvero al limite del primitivo, nel bene (degli affetti) e nel male (della violenza).  Due ore sono tante ma filano. Il finale, gli ultimi 40 minuti (tanti rispetto al totale, pressoché 40 minuti di realtà mostrata così come è), è un incastro eccezionale di colpi di scena e suspense: complicazioni che volutamente non permettono una lettura semplicistica della realtà, se si pensa al film nel suo insieme. Infatti le donne fanno apertamente le  civettuole: non sono  esclusivamente  vittime innocenti. Inoltre la giustizia non è credibile: il bestiale (fa risse spesso, in un locale dove questo è tollerato, mentre non dovrebbe) vecchio (la cui figlia muore uccisa in quella sera) lamenta, di fronte al tutore della legge, che il malato di mente viene tutelato ad ogni costo, ma sua moglie non è stata tutelata alla stessa maniera. Si intuisce che qualche ragione dovesse averla, al di là di tutto.

Tale bestialità è mostrata in Inghilterra, spesso cantata come terra del progresso civile: volutamente si mostra il paradosso di ciò (stupri, crimini perpetrati in modo  apertamente irresponsabile…). Infatti il dramma conclusivo avviene nella cornice, apparentemente rispettabile e rispettata, di festa religiosa.

Il nucleo del film sta poi forse in questo primitivismo: gli stessi, che fanno il reato abominevole, sono i primi che pretendono giustizia; e pretendono una giustizia sommaria dato che non credono alla giustizia ufficiale (sono loro, all’inizio del film, a chiedere come mai la violenza dilaghi in Usa). Ovviamente è una giustizia che deve funzionare solo a difendere i propri interessi, mentre non deve affatto funzionare contro se stessi, i quali ne hanno fatte di cotte e di crude. La descrizione di questa barbarie (purtroppo non immaginata dal nulla, ma bensì tante volta realizzatasi nella storia), rientra in un grandioso squarcio sociologico: l’ignoranza e la violenza del maschilismo; la normalità (così attestata in Inghilterra, ma ovviamente non solo lì) degli stupri e dell’alcolismo; un orrore che si ritorce sui giovani come vittime più indifese di ieri (forse), che diventano così i carnefici dell’oggi; la normalità della correità nel silenzio; la solitudine; il bisogno di affetto spinto, dato che i rapporti umani sono malsani.

Il tutto è reso credibile anche perché le tenerezze tra il professore e sua moglie sono realistici, e commoventi nella loro semplicità. E con la stessa semplicità, come si diceva, si mostrano i problemi all’interno della medesima coppia, le differenze di fondo sul modo di intendere la vita …

Quelle degli stupri sono scene orrende, rese perfettamente dall’attrice bravissima, che fa vedere come ciò alimenti malattia mentale e incubi.

La violenza dell’assedio, e il senso dell’impotenza verso la violenza subita (un altro stupro alle porte, dopo sole 24 ore, da parte di persone che ci prendono gusto, vedendone la facilità; l’uccisione del tutore della legge, evidentemente troppo solo; il taglio dei fili del telefono) sono magistrali nel finale, in cui però la civiltà del matematico prevale. Lui avrebbe dovuto e potuto fare molto di più, e non lo ha fatto per codardia, sin lì. Hoffman (interpretazione splendida) sarà pure un  inetto (i suoi difetti si vedono e li paga tutti in modo terribile per la paura); ma sa far valere il diritto contro la barbarie (nessuno può violare casa sua), e la sua intelligenza fa la differenza a suo favore, alla fine. Però ormai lì conta solo la sopravvivenza, e si devono mettere da parte tutti i modi urbani messi in atto per mascherare la propria viltà: bisognava pensarci prima, ad essere pronto ad affrontare le difficoltà che la realtà può porre.  

Ma ciò avviene in un contesto di devastazione materiale e psicologica assolute: il regista sembra rifiutare prospettive meno sconsolanti. Un pessimismo che quindi non si può ergere a norma; ma che neppure può essere ignorato a priori, dato che illumina su aspetti salienti della natura umana, non così lontana dalla possibile esperienza di tutti

 

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