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Testament

Regia di Lynne Littman vedi scheda film

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La recensione su Testament

di OGM
8 stelle

Questo film dimenticato, della regista premio Oscar Lynne Littman, ci riporta ad un soggetto ormai passato di moda, che era di scottante attualità trent’anni orsono. La catastrofe nucleare. Un incubo che qui viene reso nella sua dimensione più plausibile, che non è quella del fragore e della spettacolare distruzione, bensì, al contrario, quella del grande silenzio, dell’isolamento, del non sapere cosa stia accadendo oggi, e cosa accadrà domani. Se le testate atomiche colpiscono la costa orientale degli Stati Uniti, sulla sponda opposta arrivano solo gli indizi del nulla: i segnali muti e invisibili delle comunicazioni radio interrotte, e delle radiazioni che uccidono poco a poco, senza dare alcun cenno della loro presenza. In questo film il dramma è spennellato dell’incertezza causata da una situazione di abnorme gravità, che non si rende evidente tramite la devastazione, ma solo tramite l’indefinibile senso di una improvvisa mancanza, una voragine che ha inghiottito, in un colpo, tutto ciò che si trovava al di là dell’orizzonte. Hamelin, una cittadina californiana, omonima del leggendario villaggio del pifferaio magico, si trasforma d’un tratto in una terra di confine, situata sul bordo di un abisso che si fa largo, giorno dopo giorno, sottoforma di carenza di cibo ed acqua, malattie gastrointestinali, rifiuti che si accumulano nelle strade, disperazione ed abbrutimento. Al centro della storia, la classica famiglia media americana, composta da due genitori e tre figli, ci dimostra cosa significhi sopravvivere, ossia far semplicemente continuare la vita, senza altro scopo che quello di andare avanti, di non lasciarsi fermare dall’ignoto. Ci si aggrappa alla quotidianità, facendo però in modo che anche la morte e lo smaltimento dei cadaveri rientrino nell’ordinaria amministrazione.  Lo scenario certamente non è nuovo, ma è lontano dal mito apocalittico da ultimo uomo sulla Terra, incentrato sulla figura semidivina del superstite. Qui i personaggi principali sono soltanto i comuni rappresentanti di una coralità di  morenti: di persone che soffrono, sentendosi lambire dalla fine, e che si sforzano di mantenere la speranza, però si rendono conto che stanno perdendo le forze. Il realismo della sconfitta dignitosa è l’unico registro che si addica alla raffigurazione della fine del mondo, quando questa non è quella visionaria di stampo evangelico e cosmologico, ma quella concretamente realizzabile con i micidiali marchingegni inventati dall’uomo. La guerra, in tutte le sue forme, non ha in sé nulla di eclatante: il suo suono più autentico e persistente non è l’urlo della battaglia, il rombo del cannone o lo scoppio delle bombe, bensì il prolungato gemito di coloro che sono stati feriti, umiliati, violati. Testament è il resoconto di un’agonia collettiva,  scandito dalle pagine del diario personale della donna protagonista, una madre che, dal giorno in cui quello sconvolgente annuncio è stato lanciato attraverso i teleschermi, non ha più notizie del marito, e non può far nulla per salvare i suoi ragazzi. La sua esistenza, dentro la casa di famiglia, è fatta di una normalità che cerca di resistere, però costantemente si consuma, logorata dalla progressiva presa di coscienza che si è del tutto impotenti, e che la corsa verso l’inevitabile, anche quando sembra momentaneamente sospesa, in realtà, continua, segretamente, ad avvicinarsi alla sua terribile meta. La vita, intanto, prosegue come può, mentre galleggia sulla superficie di una corrente impetuosa: si mangia, si dorme, e magari si va pure in bicicletta e si suona il piano,  però non si fa più l’amore. Si smette di sognare, ma non si può fare a meno di ricordare. Ben presto l’iniziale ribellione si placa,  e l’umanità diventa una sostanza rarefatta, disseminata, come la nebbia, in mezzo ad un ingombrante caos di cose diventate inutili, ammonticchiate qua e là come le scorie di un passato che non potrà mai più tornare. Il film, tratto dal racconto The Last Testament di Carol Amen, procede con passo zoppicante, stranito anch’esso, in qualche senso, come le persone che attraversano quella inimmaginabile esperienza. A tratti si inceppa, diventa surreale, manifestando quei sintomi di alienazione che chiunque, in quelle condizioni, accuserebbe. Nella provincia americana, ogni voce produce un’eco  distorta, spersonalizzata dall’anonima uniformità del paesaggio. Ed è davvero singolare l’effetto che si crea quando quella voce è una soffocata esclamazione di sgomento. 

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