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Blade Runner 2049

Regia di Denis Villeneuve vedi scheda film

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La recensione su Blade Runner 2049

di chapluz
6 stelle

L’identità, la coscienza, la maternità, sono temi che si sposano con la fantascienza esistenzialista, un genere che adoro e che anche in questo "Blade Runner 2049" non mi è dispiaciuto, anche se da questo seguito tanto atteso mi aspettavo di più.

"Esistono due possibilità", scrisse una volta Arthur C. Clarke: "o siamo soli nell'universo o non lo siamo. Entrambe sono ugualmente terrificanti." Nelle fredde lande urbane della futura Los Angeles, la prima sembra l'unica risposta plausibile - ma questo solleva un altro dilemma persino più esteriore, che si profila come nuvole temporalesche che si annidano nel cielo. In un modo simile ma distinto da quello dell'opera magistrale di Ridley Scott, "Blade Runner 2049" ci rimanda a un'altra domanda, ancora più densa di significato: ciò che possiamo percepire è solo ciò che scorre in superficie, o il significato della vita e dell'esistenza scorre a una profondità maggiore di quello che possiamo vedere, ascoltare, toccare?


Il film di Denis Villeneuve gioca con entrambe le opzioni, senza fornire alcun appiglio per la risposta, dando però allo spettatore la certezza di un'ambizione: quella di voler diventare una delle più spettacolari, provocatorie, profonde e spiritualmente impressionanti opere cinematografiche del nostro tempo.

 

In virtù di quest'ambizione il film è visivamente eccezionale e la fotografia di Roger Deakins è spesso bellissima. Tuttavia le nuove ambientazioni, più vicine a Star Wars o all'epilogo di Automata che alla Los Angeles piovosa del futuro, non convincono e spesso costringono lo spettatore a uno sforzo di concentrazione per seguire l'evolversi della vicenda.

 

Il film ha una trama con spunti interessanti, l’identità, la coscienza, la maternità, il rispetto della vita, senza riuscire però ad approfondirli.

 

La presenza di Gaff e Deckard cerca di dare spessore al ruolo di K, Joe, o come lo si voglia chiamare, interpretato dall'inespressivo Ryan Gosling, che con il Wallace di Jared Leto rappresentano i due personaggi maschili con velleità da protagonisti ma che protagonisti alla fine non sono.

 

I veri protagonisti sono al femminile, tanti ruoli ma non tutti a fuoco. Ana de Armas davvero bellissima, tuttavia compressa nelle apparizioni intermittenti da androide devotamente innamorata del replicante K, Sylvia Hoeks poco incisiva e credibile come unica vera cattiva del film, Robin Wright troppo avulsa e isolata come superiore di K, Mackenzie Davis che in taluni momenti ricorda Daryl Hannah, Carla Juri un po' evanescente, considerato il personaggio cruciale che interpreta.

 

Ruoli importanti, come dicevo, ma alla fine la mente torna alle icone Sean Young (Rachael) e Daryl Hannah (Pris). E, giudizio molto, molto personale, soprattutto a quest'ultima e alla scena del primo "Blade Runner" in cui viene "terminata" (o "retired", per usare l'espressione della sceneggiatura originale) da uno spaventatissimo e quasi soccombente Deckard.

 

Dal momento che il tema principale del sequel è la maternità, avrei preferito un ruolo più potente affidato a un’attrice, per vedere quest'ultima diventare protagonista e nuova icona. E invece nell'arco delle quasi tre ore di proiezione dobbiamo seguire Gosling dappertutto, per poi scoprire la marginalità del suo personaggio, alieno alla vera trama, dove i protagonisti sono o invisibili agli occhi o all'interno di una bolla di vetro.

 

L’identità, la coscienza, la maternità, sono temi che si sposano con la fantascienza esistenzialista, un genere che adoro, e che anche in questo "Blade Runner 2049" non mi è dispiaciuto.

 

Non un film brutto quindi, ma si parla pur sempre del seguito di Blade Runner, uno dei punti di maggiore evoluzione nella storia della fantascienza e che in qualche modo ci ha cambiato la vita - entrando nel lessico quotidiano e aprendo (forse) un minimo di spiraglio etico sulle conseguenze della manipolazione genetica.

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