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La città delle donne

Regia di Federico Fellini vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su La città delle donne

di yume
8 stelle

La città delle donne è un sogno, il cammino circolare di un treno che entra sferragliando nel tunnel, fa il suo giro e torna da dove era partito. Come al Luna Park il tunnel degli orrori.

Dice Fellini:
“È quello che avviene, mettiamo, durante l’inverno o in stagione brutta, quello che avveniva tanti anni fa, ma fors’anche oggi avviene specialmente nei piccoli paesi o nelle città di provincia. Mentre l’acqua scroscia e tira vento, in certi cupi pomeriggi o di notte. Si va al cinema, e si apre come una porta sull’impossibile, sull’incredibile. Questo discorso vale soprattutto per i bambini, ma in chiave diversa anche per i ragazzi, i giovani e in fin dei conti per tutti, lungo le strade delle diverse situazioni, ognuna con la sua forma di frustrazione. Dentro la sala apparivano quelle ombre, quelle sagome, ed erano l’immagine stessa della seduzione: corpi e volti femminili o, per altro aspetto, figure di eroi maschili da imitare. Questa seduzione allo stato puro non pare si ritrovi nel teatro o in altre forme di arte. Nel cinema persiste una contraddittoria realtà/irrealtà che si pone sempre ad una certa distanza pur facendosi invadente, appaga e insieme lascia un rimpianto; qualcosa di perduto da ritrovare, qualcosa che si sottrae, da inseguire.

Il cinema in quanto seduzione irresistibile è qualche cosa di femminile, nella sua essenza.”

 

1980, ancora un capitolo del lungo viaggio intorno a sé stesso, La città delle donne, e un Fellini sessantenne che affida al fratellino minore, Marcello, il compito di esplorare quel pianeta femminile, "mescolanza di onirico e di materico, di evanescenza e di dettaglio, a seconda che i corpi dei personaggi abbiano i piedi per terra o la testa tra le nuvole, a seconda che le loro storie abbiano le radici nel sociale o i rami nel surreale… "(Stefania Miccolis, Federico Fellini e la Spagna, 2013)

Dare un senso, questo è il problema.

Sogni che si trasformano in incubi, desideri adolescenziali e perbenistiche inibizioni, sguaiataggini e squisita eleganza, scherzo e paura, forse di impotenza, forse della morte.

Ma il mistero resta mistero, e, cantavano una volta, il suo nome è Donna.

“La donna sta laddove l'uomo ha la sua ombra, sì che spesso egli è portato a confondere la donna con la propria ombra”.

Carl Jung

Per un junghiano come Fellini non c’è molto di più da dire su questo eterno errare dell’uomo intorno al suo strano oggetto del desiderio. Non resta che rifugiarsi nel sogno, o, meglio, nella fiaba/sogno, le storie proiettano sul fondo della caverna, estraggono da noi i nostri incubi e li fanno volare leggeri.

Dopo Marcello/Snaporaz potrà sonnecchiare tranquillo su quel treno che corre nella campagna laziale.

La mogliettina, dolce e rassicurante, è seduta di fronte, le due donne entrate da poco nel vagone somigliano tanto a quelle del suo lungo sogno/incubo, i suoi occhiali sono rotti, ed era successo nel sogno, certo, ma perché cercare di capire?

La bottiglia d’acqua, in pericoloso equilibrio sul tavolinetto, non è caduta, questo conta, tutte quelle donne sono materne e concilianti, leggermente ironiche, se mai, ma ora Snaporaz può attorcigliarsi nel suo bozzolo caldo e chiudere gli occhi.

E domani è un altro giorno.

 Partire dal finale e ripercorrere a ritroso il film può servire, dopotutto di un sogno capiamo qualcosa solo al risveglio, se capiamo, e La città delle donne è un sogno, il cammino circolare di un treno che entra sferragliando nel tunnel, fa il suo giro e torna da dove era partito.

Come al Luna Park il tunnel degli orrori.

Snaporaz ha esorcizzato. Cosa? La paura della donna.

Dalla piccola Gelsomina con la testa gialla che suonava la tromba per Zampanò alla candida mogliettina in viaggio di nozze ma pazza per lo Sceicco Bianco, dalle malinconiche sorelle e madri dei Vitelloni alla gentile Giulietta degli spiriti molto malmaritata, donne meritevoli sono sfilate a mucchi nel suo cinema.

Ma poi c’erano anche le maghe incantatrici (e ogni uomo si sente Ulisse), le orchesse dai seni enormi voraci mangiatrici di uomini e bambini, e ogni volta l’incanto si è spezzato lasciandolo solo con tutte le sue paure.

E ora le femministe, ahimè.

“Storie con radici nel sociale e rami nel surreale.”

La fantasia del Maestro non ha confini, sfida perfino lo stereotipo, lo fa a pezzi, la lunga sequenza del congresso femminista all’Hotel MiraMare è un crogiuolo ribollente di luoghi comuni, un’esplosione magmatica di pregiudizi che prendono forma, un vivaio di anguille sguscianti che si attorcigliano come serpenti sulla testa di Medusa.

Il nostro povero Snaporaz è inebetitito, maciullato, deve perfino fare un giro con i pattini, temiamo per la sua colonna, cade dalle scale ma… nei sogni si vola scendendo le scale e non ci si fa male. Magari si rompono gli occhiali, ma ci si rialza e si esce nel verde di campi dove, fra canneti e campi di broccoli e verze, il solito donnone prova a sverginarlo (si fa per dire).

La strega di Biancaneve, o la Befana, accorre in suo aiuto e dove finisce? Strizzato sul macinino di ragazzine drogate che sniffano, strombazzano e guidano come pazze.

Non c’è pace per il nostro eroe, lui voleva solo l’avventuretta nella toilette del treno con la procace che aveva tutta l’aria di starci, e guarda dove è andato a finire!

Ma meno male che Katzone c’è!

Nel 1980 non era ancora arrivato quello vero, ma i sogni a volte sono premonitori e qui c’è un vero presagio: villa super, molossi e cellule fotoelettriche a guardia, galleria di videotape con brevi filmati di pérformances con gridolini e squittii che è un piacere, megatorta per festino in corso, troppe candele, basta pisciarci sopra per spegnerle.

Alla fine arriva anche il dono all’ospite: due olgettine (pardon) due fanciulline sculettanti che guidano Snaporaz ai piani alti e lo sistemano sul letto a baldacchino.

Da lì comincia il salto nel vuoto, prima sulla passerella di un otto volante fra le luci di un immenso Luna Park (una scena indimenticabile creata da Dante Ferretti), poi sulla mongolfiera da cui il nostro Ulisse in sedicesimo cade spiaccicandosi a terra e finalmente svegliandosi.

La bottiglietta è ancora lì, in piedi, e il treno corre.

"È un tuffo verso profondità nuove. In quel film venne coinvolto anche Claudio Magris, come consulente per certe battute in dialetto triestino. Con lui, in viaggio verso Trieste di ritorno da Torino dove allora insegnava, ci siamo incontrati qualche volta alla stazione di Mestre, insieme a Fellini".dice Andrea Zanzotto, coinvolto nella sceneggiatura e autore di un “saggetto”, come lo chiama lui, sul film(Ipotesi intorno a “La città delle donne “ di Fellini, in Il cinema brucia e illumina, Marsilio, 2011)

L'amicizia con Fellini e con il suo mondo, che era un mondo profondamente dialettale, riguardava la nostalgia del parlare primitivo, in particolare quello romagnolo, ma spesso c'erano dei lacerti anche di altri dialetti” continua Zanzotto, e questa cura del dialetto fa il paio con quella visione della donna come matrice primaria, sacca uterina da cui “ uscire liberati forse soltanto per sognare, diverso e peggio.” (ibid.) da cui tutto ha origine.

Nel magma indistinto delle circostanze del suo cinema, nel cangiante succedersi di vicende saldamente tenute in pugno da maestria superba, gli inserti dialettali sono momenti di grande teatro nel cinema, dove il gusto dell’esercizio sul linguaggio va di pari passo con la cura delle immagini e la prolifica capacità di creare storie.

In uno scenario che fa pensare per caratteristiche varie alla campagna laziale nella zona confinante con la Toscana, spunta il siparietto centrale che sta fra Goldoni e Ruzante, madre e figlia che finiscono a lanci di verdura in mezzo alla serra, un cameo di comicità frizzante in autentico dialetto veneto:

Vorrei tentare di rompere l’opacità, la convenzione del dialetto veneto che, come tutti i dialetti, si è raggelato in una cifra disemozionata e stucchevole, e cercare di restituirgli freschezza, renderlo più vivo, penetrante, mercuriale, accanito, magari dando la preferenza ad un veneto ruzantino o tentando un’estrosa promiscuità tra quello del Ruzante e il veneto goldoniano, o meglio riscoprendo forme arcaiche o addirittura inventando combinazioni fonetiche e linguistiche in modo che anche l’assunto verbale rifletta il riverbero della visionarietà stralunata che mi sembra di aver dato al film.

“Visionarietà stralunata”, certo, ma anche “seduzione irresistibile” e “il cinema, in quanto seduzione irresistibile, è qualche cosa di femminile, nella sua essenza.”

E resistere alla seduzione femminile è sconsigliabile, avverte il Maestro, dunque andiamo al cinema.

 

 

 

www.paoladi giuseppe.it

 

 

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