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Wonder Woman

Regia di Patty Jenkins vedi scheda film

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La recensione su Wonder Woman

di M Valdemar
6 stelle

 

locandina

Wonder Woman (2017): locandina

 


Stupisce solo in apparenza l'alto gradimento critico riscontrato oltreoceano (laddove, finora, per i prodotti DC non vi è stata pietà alcuna, mai): Wonder Woman incarna, abilmente, lo spirito dei tempi.
Femminismo – portatore di messaggio di speranza (immancabile la morale: «solo l'amore può salvare il mondo» … di sconcertante banalità, generica, buona per tutte le stagioni) nonché sola, vera, gioiosa forza in grado di liberare/riscattare l'umanità dall'infinità di peccati e atrocità –, virato, naturalmente, in modaiola ottica supereroistica: l'eroina – come prima la Katniss Everdeen di Hunger Games, in seguito la Rey di Star Wars, e in mezzo la pletora di emuli in ambito YA – ha fattezze, fierezza e fisicità di una giovane, bellicosa, bellissima donna (qui Gal Gadot, d'imperiale, imperiosa figaggine).
A cui nessuno – men che meno un uomo, a maggior ragione se trattasi di un possibile aitante spasimante – può dire quello che deve fare.
Femminismo di facciata, istanze sociopolitiche ridotte a espressioni di circostanza e coreografie del glamour, identificazione per le masse (appartenenti allo stesso genere: modello per ragazzine ecc.) e pertugio autoassolutorio per insicurezze/colpe maschili come traguardo finale: il furbissimo cocktail è roba fresca come un preparato appena scongelato dal freezer. Agitato e mescolato e servito, per la prima volta per un cinefumetto, da una regista donna (la Patty Jenkins del dimenticato Monster): oibò, novità da salutare con onori e tributi a prescindere.
Sì, a prescindere dal fatto che è indistinguibile da mano di uomo: stesse modalità di direzione, stessa riverenza, gli stessi ralenty nelle scene d'azione, girate meccanicamente, la medesima aderenza ai canoni produttivi imposti.
Che ci sta, ci mancherebbe. Ma non si aizzino aspetti che nulla c'entrano.
Piazzare primi, primissimi piani sul volto e sul corpo in odor di perfezione della Gadot non è né un'intuizione né tanto meno un'arma da scagliare contro chicchessia: è solo normale strategia, baby.

Samantha Jo, Connie Nielsen

Wonder Woman (2017): Samantha Jo, Connie Nielsen

Gal Gadot

Wonder Woman (2017): Gal Gadot

Gal Gadot

Wonder Woman (2017): Gal Gadot


Ciò detto, tuttavia, il film – nella sua prevedibile, prestabilita rotta – funziona; tanto quanto può farlo l'opera di un universo dai confini tracciati e dai valori noti e immutabili (pur spostati, opportunamente, verso ammiccamenti marveliani, come dimostrano fondali cromatici e tuffi ironici).
I passi canonici della classica origin story sono rispettati appieno: dall'incipit in flashback in un'isola-Paradiso tra le Amazzoni (tra cui le sprecate Robin Wright e Connie Nielsen) – necessario e stucchevole come si conviene – che illustra l'infanzia della Nostra, predestinata con nobili, divini geni (ricorda l'Immortals di Tarsem Singh, anche per l'“animazione” di quadri raffiguranti i miti dei greci antichi) all'incontro che le cambia il corso dell'esistenza (con un “esemplare” di uomo “sopra la media”, il bovino Chris Pine, pilota-spia), fino alla calata nel mondo degli umani (la grigia, plumbea Londra), e la conseguente autoaffermazione identitaria.
Contesto (e pretesto), la prima guerra mondiale: i tedeschi cattivi (capitanati dall'habituè Danny Houston: ordinaria amministrazione), gli alleati buoni, il dottore pazzo (Doctor Poison, appunto), il manipolo à la sporca mezza dozzina (sono tre, più la spalla comica a organizzare: bastano e avanzano), più l'elemento “divino” (Ares, il dio della guerra) che significa "twist".
Passaggi obbligati da rispettare a parte, si poteva però osare, con minimo sforzo, maggiormente: nel battibeccare amoroso tra le bella e il pilota, per esempio (solo brevi, stupide battutine da high school movie), o nel descrivere il disorientamento di Diana/Wonder Woman nel mondo altro (invece abbiamo giusto la sfruttatissima scena della “prova vestiti” con tanto di accompagnamento sonoro catchy).
Ma inutile pretendere altro (certo non da una regia sostanzialmente anonima): lo spettacolo deve fare il suo preordinato corso.
Che rimane, con tutti i limiti e i difetti del caso, godibile, perlomeno a tratti, e per la innocua consistenza: la sequenza finale ha (unica) il giusto pathos e un soffio di epicità; ma a certificare l'appagamento sono il supersexy zompettare di Gal Gadot, da cui ti faresti volentieri prendere al lazo che ti fa dire la verità-solo la verità-null'altro che la verità, e il fantastico (troppo poco utilizzato) motivo dedicato ideato da Junkie XL in Batman v Superman.
Niente futili scene post-titoli di coda, niente estenuanti paranoie da “continuity” (Bruce Wayne è solo un nome), niente eccessi da senso della tragedia espanso: per ora basta così.




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