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Il gusto del saké

Regia di Yasujiro Ozu vedi scheda film

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La recensione su Il gusto del saké

di Peppe Comune
9 stelle

Shohey Hirayama (Chisû Ryû) è un'anziano vedovo che vive insieme ai figli Michiko (Shima Iwashita) e Kazuo (Shinikiro Mikami). Ha un'altro figlio, Koichi (Keiji Sada), sposato e in perenne crisi finanziaria. Il suo problema è Michiko. Vede le segretarie dell'ufficio in cui lavora sposarsi una dopo l'altra e ha lo specchio davanti agli occhi della figlia di "Zucca", un suo vecchio collega, che è diventata una "zitella inacidita" a causa dell'egoismo del padre che non gli ha lasciato farsi una vita autonoma. Shohey sa che rimarrà solo ma non può impedire alla figlia di prendere la sua strada e anche se ne soffrirà molto ha ormai maturato la convinzione che "bisogna sposare chi si ama".

 

Shima Iwashita

Il gusto del saké (1962): Shima Iwashita

 

"Il gusto del sakè" è l'ultimo film di Yasujiro Ozu, un capolavoro che assomma poesia per immagini e profondità di analisi sociale. Ancora la famiglia al centro della poetica dell'autore giapponese e come sempre, dietro la descrizione minuziosa dei rapporti filiali, si analizzano i mutamenti socio-economici incorsi in Giappone a partire dal secondo dopoguerra. La famiglia è il luogo d'incontro tra diverse generazioni e il legame affettivo che la tiene unita non può consentire a chi è ancorato ai sacri valori della tradizione di avere la meglio su chi è naturalmente proiettato verso il futuro. Nei film di Ozu questa è una presa di coscienza che ha sempre riguardato i padri, sono sempre loro a spingere i figli a farsi un'indipendenza familiare, a costruirsi autonomamente il proprio ruolo nella società. Atteggiamento che riflette la tipica rassegnazione (che è di Ozu evidentemente) di chi vede la  mutazione identitaria incorsa nel proprio paese procedere irreversibilmente lungo un percorso che non sembra concedergli altra scelta che quella di farsi gentilmente da parte. Ritengo che la chiave di volta per interpretare nel profondo il cinema di Ozu stia nello sguardo orizzontale dei padri, ovvero, nel loro stare perennemente in bilico tra un passato che non gli riguarda più e un futuro che non gli appartiene secondo un'evoluzione lineare della storia che gli conferirebbe il ruolo di fare da agenti equilibratori in un paese percorso da importanti e fondamentali trasformazioni socio-culturali (non bisogna mai dimenticare l'esito del secondo conflitto mondiale e la relativa amministazione McArtur quando si parla per il Giappone di cesure storiche veloci e non graduali). Ruolo, che tradotto nei suoi film, rimanda a quello di addolcire il passaggio dei figli dalla solidità di un assetto familiare consolidato a un'altro tutto da costruire. Il gusto del sakè del titolo evoca il momento del ristoro, l'incontro con gli amici davanti a un bel bicchierino a parlare di vecchie storie e ricordare un tempo inesorabilmente trascorso. C'è nostalgia per un gusto per la vita che non è più lo stesso ma nel contempo emerge anche la ferma volontà di non riflettere quest'amara condizione esistenziale sulle scelte dei propri figli. L'altruismo prevale sempre sull'egoismo insomma e la solitudine è il prezzo che gli anziani genitori di Ozu sono disposti a pagare affinchè la storia continui il suo lineare percorso verso un futuro tutto da decifrare. Ozu sembra aver fatto un solo lungo film in tutta la sua carriera : macchina da presa ad "altezza tatami" e la storia che si compie tra le pieghe di ordinari ritratti di famiglia. Un maestro di pregevole semplicità.

 

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