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Leatherface

Regia di Alexandre Bustillo, Julien Maury vedi scheda film

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La recensione su Leatherface

di scapigliato
6 stelle

Se tralasciamo l’esistenza di The Texas Chain Saw Massacre, originale e seminale film del 1974 a firma di Tobe Hooper e la serie ufficiale che ne è seguita (The Texas Chainsaw Massacre 2, Tobe Hooper, 1986; Leatherface: The Texas Chainsaw Massacre III, Jeff Burr, 1990; Texas Chainsaw Massacre: The Next Generation, Kim Henkel, 1995) questo terzo prequel/reboot diretto da Bustillo e Maury, che segue il remake/reboot del 2003 (The Texas Chainsaw Massacre, Marcus Nispel), il prequel al remake (The Texas Chainsaw Massacre: The Beginning, Jonathan Liebesman, 2006) e il sequel/reboot del 2013 (Texas Chainsaw 3D, John Luessenhop), è anche un’opera piacevolmente interessante su più piani, narrativo, visivo e politico.

Purtroppo però, in questo ginepraio di sequel, remake e reboot più intrigato delle storyline di Halloween (John Carpenter, 1978), non si può fare a meno di contestualizzare ogni pellicola che porti nome Texas Chainsaw Massacre e che tratti in alcun mondo le gesta maciullanti e cannibaliche di Leatherface. Da questo punto di vista, non solo il film di Bustillo e Maury è inutile, ma non apporta nulla di nuovo né all’immaginario relativo alla saga in questione né allo slasher né al filone di appartenenza, l’horror rurale americano. Lo stesso è accaduto a Rob Zombie e ai due inutili e inefficaci reboot della saga carpenteriana (Halloween, 2007; Halloween II, 2009), per non dire del recente sequel diretto da David Gordon Green (Halloween, 2018). Da qualsiasi punto di vista guardiamo queste operazioni commerciali – a cui potrebbero essere aggiunti sia l’ottimo crossover Freddy vs. Jason (Ronny Yu, 2003) sia l’innocuo remake/reboot dell’originale craveniano del 1984, A Nightmare on Elm Street (Samuel Bayer, 2010) – il risultato non cambia: dare un volto, una voce, un’anima, un’infanzia e un’adolescenza a una mostruosità quasi metafisica, la junghiana ombra della strega, il Male Assoluto, il boogeyman ineffabile del fantastico puro, significa innanzitutto depotenziare il valore mitopoietico e mitologico della figura mostruosa, stregonesca od orchesca che sia, e in secondo luogo significa distruggere completamente tutto un immaginario evocativo e storico retto abilmente per decenni grazie ai sequel di un’intera saga.

Il Leatherface della coppia francese è pur sempre un’ottima visione che affonda letteralmente nella carne le riflessioni sulla disfunzionalità famigliare del ventre molle dell’America e, per estensione all’America stessa, che fa appunto dell’istituzione famigliare le fondamenta della propria morale, spesso insana e contraddittoria. La famiglia come principale agenzia di terrore è il tema portante di tutto l’horror della New Hollywood, articolato incisivamente proprio dal film del 1974 di Tobe Hooper, e non poteva che essere tema principale anche in questo ennesimo reboot. In Bustillo e Maury quindi, non rivivono solo gli embrioni dei personaggi chiave del primo selvaggio Taxas Chain Saw Massacre,  ma anche lo spirito che ne animò la lavorazione. Il problema è sempre il punto di partenza, raccontare il passato di una mostruosità per renderla umana e forse più spaventosa. Il risultato invece, è il depotenziamento della stessa figura mostruosa che nel passaggio da mito a umano perde di efficacia e carica immaginifica.

Non solo. Il plot è così imprevedibile e bizzarro nella sua modulazione – fuga dal manicomio, rifugi rimediati ovunque, body count interno che spiazza lo spettatore sull’identità del futuro “faccia di cuoio”, etc. – che palesa l’assenza di idee solide in sceneggiatura, giocando tutto sul filmico, dalla fotografia al montaggio, e sul profilmico, con una messa in scena dello squallore della provincia Texana ricavata in Bulgaria – il che ha giovato al film in termini di straniamento – tale da rievocare l’(in)sana iconografia degli horror rurali americani da cui proviene. La sporcizia, il disagio sociale, l’imbruttimento di volti e corpi della marginalità, cadaveri decomposti sia umani che animali, efferatezze e coreografie splatter e gore innervano sì Leatherface dalla prima all’ultima scena di tale insana iconografia, ma finiscono per restare immagini sprovviste di carica evocativa. Tutto molto facile e veloce sia nella narrazione che nella lettura, come la copula tra due evasi dal manicomio e il cadavere in decomposizione trovato in un camper abbandonato: una scena così telefonata che non trasmette nulla.

Più in generale, si può dire che in Leatherface non c’è dolore, non c’è rabbia, non c’è rappresentazione orrorifica, non ci sono sottotesti universali, non c’è perturbazione, non c’è affondo, non c’è gioco mitologico; è tutto veloce, di semplice lettura e soprattutto databile, quindi rapidamente dimenticabile. Anche il mito d’ispirazione viene tradito, non solo perché si indaga l’inutile origine del male, ma anche perché l’on the road sanguinario che vivono i protagonisti si appoggia su altri climax e altri twist per intrattenere il pubblico, lasciando tale mito solo sullo sfondo, e molto ben occultato.

Se Leatherface, Michael Myers, Jason Voorhees e Freddy Krueger sono nati senza volto, in buona parte senza voce e con qualche rapido accenno al loro passato, e così li abbiamo conosciuti, e così ci hanno affascinato e turbato, e così hanno influenzato l’immaginario, allora così deve restare. Ogni operazione spiegazionista che annulla la forza sovversiva del fantastico va disprezzata.

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