Regia di Francesco Rosi vedi scheda film
Fedele adattamento del romanzo autobiografico di Carlo Levi, condannato a scontare tre anni di confino in uno sperduto villaggio della Basilicata: un paesaggio aspro, sassoso, un mondo fatto di miseria, sporcizia, superstizione, dove l’intellettuale del nord si sente come un alieno proveniente da un altro pianeta. “Cristo si è fermato a Eboli, dove la strada e il treno abbandonano la costa e il mare, e si addentrano nelle desolate terre di Lucania. Cristo non è mai arrivato qui, né vi è arrivato il tempo, né l’anima individuale, né la speranza, né il legame tra le cause e gli effetti, la ragione e la Storia”: i notabili locali (il podestà, i medici, il prete) sono persone senza nessuna statura morale, che prosperano nell’ignoranza altrui, e gli emigrati rientrati dall’America dopo il 1929 ne parlano come di un paradiso perduto, del quale resta il ricordo nelle foto di Roosevelt appese alle pareti. Prima parte un po’ statica, con le passeggiate per il paese come unico svago; più movimentata la seconda parte, con la lotta dei popolani per il diritto alla cura (oggi verrebbe considerato esercizio abusivo della professione medica, ma a quei tempi non si andava tanto per il sottile) e le notizie sulla guerra d’Etiopia, il cui esito determina anche l’amnistia per i confinati. C’è qualche eccesso di colore (la Papas è sempre troppo Papas), ma perdonabile; peccato per il finale piattamente didascalico, con le discussioni con i compagni di lotta dopo il ritorno a Torino.
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