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I figli della violenza

Regia di Luis Buñuel vedi scheda film

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La recensione su I figli della violenza

di Antisistema
10 stelle

I figli della violenza, è una libera traduzione italiana che sposta il conflitto su un piano genitori-figli, quando con il termine "I dimenticati", traduzione ben più appropriata del primo capolavoro assoluto Bunueliano Los Olvidados (1950), il regista spagnolo focalizzava il problema su un piano social-antropologico, comune a tutte le esistenze ai margini delle megalopoli mondiali, che siano New York o Parigi come mostrate nei titoli di testa, o l'ancor più caotica Città del Messico, nella cui costruzione edilizia incontrollata, s'è formato un ammasso incontrollato di costruzioni, che avanza inesorabilmente per inghiottire dentro di sè le esistenze degli invisibili della società capitalista moderna. 
Etichettato come cineasta surrealista dati gli esordi che destarono scandalo e scalpore, tale definizione non tiene conto in alcun modo l'interesse poliedrico di un Bunuel, capace di essere molto più eclettico di quel che in tanti credevano sin dagli anni 30', tanto che questo Los Olvidados, nella sua concezione realista, provocò altrettanto sdegno, per lo squallore delle relazioni umane messe in scena nelle periferie della capitale del Messico, vere e proprie bidonville a cielo aperto, con edifici diroccati, tra cumuli di calcinacci e rifiuti che formano oramai vere e proprie collinette da segnare sulle mappe, per via dell'altitudine elevata raggiunta; in mezzo a ciò si muove un'umanità dimenticata, formata da ragazzi allo sbando, la cui unica modalità espressiva è la rabbia che presto sfocia in violenza cieco e distruttiva, quanto di adulti gretti e ciechi (non solo letteralmente), capaci di comunicare con i giovani solo tramite una bruta forza fatta di orecchie tirate, capelli strattonati, forti bastonate e ceffoni mollati in pieno viso, il tutto rimpiangendo come il cieco Don Carmelo i cari bei tempi quando i giovani rispettavano gli anziani. Un mondo adulto privo di qualsiasi amore nei confronti della loro prole, porta ad un cortocircuito affettivo dove i giovani alla disperata ricerca di una manifestazione di affetto da parte dei loro genitori, cercando un minimo segnale di compiacimento cercando una retta via da seguire, ma data l'assenza di una qualsiasi guida fanno ben presto a perdersi come Pedro, vittima delle avversità di una società basata su violenza e sopraffazione, dove si agirano dei novelli Caini come Jaibo, pronti a distruggere irrimediabilmente tutto ciò che incontrano, ma d'altronde Caino non uccise Abele, a causa dell'invida nei suoi confronti per la maggior preferenza di Dio accordata ai sacrifici fatti da quest'ultimo? Jaibo è un mostro con cui non si prova empatia alcuna, così come per gli altri dimenticati ritratti da Bunuel, eppure anche tali legni distorti, soffrono a causa di una vita priva di qualsiasi affetto, condotta per questo in una totale solitudine devastante, dove i rapporti umani sono regolati dal principio di Darwin, dove il forte schiaccia il debole. 


Ispirato pare dalla visione di Scuscia di Vittorio De Sica (1946), Bunuel pur facendo proprie molte istanze del neorealismo, se ne discosta sia ideologicamente, in quanto nella povertà cagionata dalla miseria non vede alcuna luce morale positiva, sia formale, dove la fotografia di Gabriel Figueroa non persegue un'estetica realistica, ma predilige un bianco e nero cupo negli interni, pregno di significati simbolico derivanti dalle superstiziose tradizioni popolari (la colomba bianca che dovrebbe fungere da transfert per guarire una malattia), che esplodono nelle due sequenze surrealista, di cui quella più importante riguarda il piccolo Pedro, il cui sogno è pregno di significati edipici (l'attaccamento alla madre), religiosi (Jaibo ritratto in tutto e per tutto come una creatura demoniaca) e coscienziosi (il senso di colpa per l'omicidio a cui ha fatto parte). 
Non è un film ottimista dice seccamente la voce narrate ad inizio film, Bunuel non si smentisce, nell'asciuttezza di una narrazione concisa di appena un'ora e venti, mette in scena non tanto un teatro di pessimismo esistenziale, che avrebbe portato l'opera ad un appesantimento per accumulo di avvenimenti negativi con effetti nefasti, ma solo la fredda crudeltà umana tanto cara al cineasta, che per me mesi ha studiato in prima persona le location urbane periferiche della megalopoli messicana e dei suoi abitanti, per niente umili nella loro povertà, in quanto mossi da una rabbia disperata pur di sopravvivere un giorno in più per garantirsi il pasto necessario nell'andare avanti, il regista frega lo spettatore facendolo credere ad un residuo di bontà nel profondo di tali personaggi, ma alla fine anche negli ultimi degli ultimi come il cieco Don Carmelo, il lato bestiale sarà sempre pronto ad emergere, cancellando all'istante qualsiasi empatia deleteria. 
Un briciolo di fiducia Bunuel sembra accordarla alle istituzioni statali, il riformatorio in cui temporaneamente si ritrova Pedro, sembra essere gestito da un borghese illuminato, personaggio molto contestato dagli anarchici e dai comunisti vicini a Bunuel, che evidentemente in quel periodo concedeva ancora fiducia alla possibilità dello stato di risolvere i problemi sociali se messo in condizioni di farlo, ma anche se il direttore è venuto a capo dei problemi di Pedro, la sua opera rieducativa verrà distrutta dai meccanismi sociali che muovono gli abitanti dei sobborghi periferici. Accolto inizialmente con tanta ostilità in Messico, solo la critiche positive di Andrè Bazin ed il premio per la miglior giuria a Cannes, contribuirono ad una mutata ricezione presso l'elite intellettuale mondiale, che a poco a poco, lo considererà il primo capolavoro assoluto di un Bunuel, che non smetterà mai di provocare le platee di tutto il mondo. 

locandina

I figli della violenza (1950): locandina


Film aggiunto alla playlist dei capolavori : //www.filmtv.it/playlist/703149/capolavori-di-una-vita-al-cinema-tracce-per-una-cineteca-for/#rfr:user-96297

 

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