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Gli invasati

Regia di Robert Wise vedi scheda film

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La recensione su Gli invasati

di spopola
8 stelle

Un viaggio fra l’onirico e il reale che è anche e soprattutto una sconvolgente esperienza sensoriale, dove le tortuose divergenze della mente sono più destabilizzanti di ciò che forse si cela davvero dentro quella casa maledetta in cui uno scienziato sta portando avanti un singolare esperimento finalizzato a studiare l’esistenza del paranormale.

Il segreto più forte ed antico dell'uomo è la paura e la paura più grande è quella per l'ignoto”  (Howard Phillips Lovecraft)

 

The Haunting (Gli invasati) è il film con cui Robert Wise rende un ultimo, tardivo omaggio (correva l’anno 1963 quando la pellicola fu realizzata) a Val Lewton  e alla sua teoria per cui gli effetti più inquietanti si raggiungono senza aver bisogno di mostrare allo spettatore creature mostruose, ma bensì mettendo in movimento il suo subconscio, la sua immaginazione (l’orrore che potremmo definire “psicologico”, insomma). Centra perfettamente il suo obiettivo, mettendo in scena una ghost story che raggiunge momenti di grande intensità e suggestione, praticamente senza rivelarci  nulla di effettivamente raccapricciante, semplicemente creando una tensione crescente e fortemente ansiogena capace di tenerci col fiato sospeso incollati alla poltrona, e che in più di una sequenza, mette a dura prova i nervi dello spettatore.

Qui infatti la “paura” (solo suggerita e più agghiacciante di qualunque immagine orrorifica) è quella dell’ignoto, del non sapere cosa si nasconde davvero dietro quella porta chiusa che rimane sempre “invalicata”, al di là della quale  premono le presenze soprannaturali (reali o mentali che siano) che sembrano infestare l’edificio, e dove proprio la villa al cui interno si svolge quasi tutta l’azione, finisce per diventare la vera protagonista “emotiva” che riflette su chi osserva dalla sala, l’incubo inquietante e sinistro della sua struttura sia attraverso la  presentazione visiva (le inquadrature minacciose dell’esterno), che per la descrizione dell’interno (pareti oblique, porte scentrate) e per il ruolo che i sui corridoi, le sue stanze svolgono durante tutto il racconto spesso vissuto in forma soggettiva (la maniacale paranoia di una delle due donne che partecipano all’esperimento).

Un film (personalmente lo considero uno dei più terrorizzanti in assoluto) che è dunque e soprattutto una sconvolgente esperienza sensoriale che riguarda certamente anche lo sguardo, il primo ad essere messo in movimento (l’angosciante invecchiamento della bambina  nel letto, la scala a chiocciola, l’apparizione di quella figura bianca che sembra davvero un ectoplasma nella parte finale della storia), ma che finisce per coinvolgere soprattutto l’udito, frutto di un sorprendete,  inquietante sonoro (colpi improvvisi, lamenti infantili, voci, le musiche di Humphrey Searle che fece ricorso a effetti elettronici e a scale musicali incise a rovescio), fondamentale elemento di condizionamento atto a creare una fluttuazione ansiogena capace di far accapponare la pelle e gelare il sangue nelle vene per come ben riesce a riportare in superficie il terrore ancestrale della nostra infanzia (la paura del buio, il fascino e il mistero di una porta semi chiusa, i suoni improvvisi nell'ombra della sera) che ha suggerito a Stephen King di definirlo “uno dei pochi radio horror movies”, preziosa sintesi, ideale per sottolineare e dare corpo ai meriti (e alla peculiarità) di una regia che ha scelto di raccontare l’orrore privilegiando le vibrazioni delle onde sonore che ci percuotono il cervello, un effetto spesso “stordente” dovuto proprio a quei reiterati rumori di natura ignota che di notte terrorizzano gli ospiti del maniero, oltre che dall’uso magistrale della voce fuori campo di una Eleanor perseguitata dalle ossessioni delle sue precedenti e traumatiche esperienze familiari.

Un viaggio insomma fra l’onirico e il reale reso ancor più agghiacciante da un bianco e nero cupo e misterioso e da una fotografia che fa un intelligente uso di lenti distorcenti,  e dove le tortuose divergenze della mente sono  più destabilizzanti di ciò che forse si cela davvero dentro quella casa maledetta in cui uno scienziato sta portando avanti un singolare esperimento finalizzato a studiare l’esistenza del paranormale.

 

 

Tratto da un racconto di Shirley Jackson altrettanto “spaventoso” (The Haunting of Hill House – L’incubo di Hill Hause  per l’Italia), il film narra la storia di un gruppo di ricercatori di scienze occulte che si stabilisce in una vecchia casa vittoriana del New England ritenuta infestata dai fantasmi. Il gruppo (decisamente eterogeneo) che opera sotto l’egida del Dottor Markway (Richard Johnson) affermato antropologo studioso di fenomeni metapsichici, è formato da sua moglie (Lois Maxwell), il presunto erede della dimora (Russ Tamblyn) e da due sensitive/medium: Eleanor (l’ottima Julie Harris), una sfiorita e complessata zitella psicologicamente labile che ha passato praticamente tutto la sua precedente vita chiusa in casa ad accudire la sua inferma, tirannica madre di recente deceduta, e la più giovane ma altrettanto problematica Theodora detta Theo (Claire Bloom, bravissima nello sbozzare la figura tutt’altro che facile della donna sicura, attraente, e con una non palesata tendenza lesbica).

Gli spettri che infestano la casa sembrerebbero essere guidati dallo spirito del vecchio proprietario, e l’antropologo è lì per cercare di dare una spiegazione scientifica a quanto accade.

Il suo sguardo è dunque razionale, ma non può certo ignorare gli inquietanti fenomeni che si verificano dentro quelle mura (grida improvvise di terrore, scricchiolii, sussurri che sembrano venire dall’oltre tomba) che saranno poi quelli che faranno crollare definitivamente il delicato equilibrio di Eleanor, dentro a una storia costruita apposta (proprio per come è stata strutturata dal regista) per suggerire la presenza di elementi extrasensoriali e instillare al contempo il dubbio che tutto sia invece frutto della mente della donna.

 

 

Lo potremmo considerare dunque anche un ambiguo, misterioso, affascinante “classico” delle “dimore maledette” che nonostante gli anni (e pur tenendo conto che le immagini sono sostanzialmente legate al gusto del cinema che si faceva nei primi anni ’60 sia per l’impostazione “teatrale di alcune scene che per la disposizione dei personaggi e la profondità di campo delle singole inquadrature), riesce a mantenere ancora intatta tutta la sua forza espressiva e di coinvolgimento, grazie a uno stile superbo e spesso vertiginoso (carrellate improvvise, impressionanti grandangoli, inquadrature imprecise e quasi sfumate, giochi di luci e di ombre, riflessi negli specchi) e un montaggio “dinamico” fatto di impennate e pause, altrettanto inventivo ed efficace.

La possibilità offerta dal DVD di “vedere” e “rivedere” le singole scene, di soffermarci sui particolari, ci conferma peraltro che il regista non ha mai “giocato sporco”, che non ha insomma bluffato con lo spettatore inserendo false piste o immagini artefatte per imbrogliare le carte, trucchetti stantiiche spesso poi finiscono di lasciare più di una delusione nel finale.

Come si è già visto, Wise ha infatti lavorato facendo leva sulle  suggestioni: si può davvero constatare che in nessuna sequenza (salvo forse in una) si ha l’effettive “certezza” che qualcosa di anomalo stia davvero accadendo (non ci sono immagini documentali, al riguardo): tutto è suggerito dalle distorsioni dello sguardo, dai rumori, da ciò che ci viene comunicato attraverso le parole (anche da quelle contorte e soggettive di Eleanor).

Nessuno insomma potrà affermare con assoluta certezza di aver “veramente” visto qualcosa che privilegi una interpretazione univoca, perché in effetti non ne troviamo alcuna traccia, ci sono proprio (o per meglio dire sono omesse da tutto ciò che passa effettivamente sullo schermo,  comprese le cause che potrebbero avere originato quegli inquietanti fenomeni. Qui, anche la più tradizionale (e abusata) scena della porta che si chiude all’improvviso, viene risolta in modo assolutamente originale. Si avverte infatti il suo “sinistro” sbattere, ma la porta si chiude quando non viene ripresa (e quindi rimane l’incertezza che possa essere stato un qualcosa di naturale a creare quell’effetto percepito esclusivamente come “suono” , così come le zone “fredde” della casa o il cane in giardino che sono solo menzionati dai protagonisti. Non bluffa nemmeno in quello che potremmo definire il momento “cult” di tutta la pellicola, e parlo della terrorizzante sequenza  in cui Eleanor che divide la stanza con Theodora si sveglia atterrita dai rumori e i mormorii che provenienti dal corridoio e stringe impaurita quella che crede essere la mano dell’amica (non mi stringere la mano così forte, mi fai male, mi fai male) ma che al momento dell’accensione della luce risulta essere stata invece una fallace illusione perché Theodora è lontana, non si è mossa dal suo letto che è sulla parte opposta della stanza, anche se sul polso restano evidenti i segni delle dita che hanno generato quella stretta febbrile (chi mi ha toccato la mano, allora? Chi l’ha toccata?). L’unica piccola concessione (ma davvero minimale) riguarda solo l’altra sequenza in cui tutti sono presenti nella stessa stanza e una delle porte sbarrate alle loro spalle, anticipata dai insoliti rumori percussivi che diventano sempre più concitati e sinistri, si deforma come se fosse battuta e spinta  da quelle entità “infestanti” che tentano di entrare a tutti i costi, mentre i protagonisti omerti e annichiliti, cercano di esorcizzare il terrore che li sta assalendo (andate via! Andate via!).

E in questo, il regista resta fedele alla sua linea fino in fondo e giustamente evita di dare una (superflua) spiegazione razionale che spinga l’ago della bilancia da una parte o dall’altra. Poiché il racconto non ha una vera e propria conclusione (anche se non mancano le sorprese) e lascia sospeso ogni esplicito giudizio circa l’origine soprannaturale dei fenomeni, o un’eventuale spiegazione logica della cosa Si rifiuta insomma di spiegare (pure nel tragico finale) se la casa è infestata  o sono invece coloro che la stanno abitando ad aver perso la testa in preda a un delirio condiviso diventando così involontari artefici degli strani fenomeni percepiti.

Il rilievo (anche indotto) che viene dato a ciò che ha ossessionato nel passato proprio Eleanor, l’importanza che assume l’attrazione omosessuale delle due donne, fornisce anche una importante sottotraccia psicologica che si potrebbe definire quasi l’analisi ante-litteram di una devastante paranoia (la complessa figura della ragazza sembra in qualche modo accostarsi a quella magistralmente disegnata da Polanski nel suo Repulsion girato due anni dopo col quale il film di Wise cui condivide un certo clima fortemente claustrofobico e la figura di una protagonista altrettanto fragile, frustrata, ugualmente vittima di se stessa.

Ottime le prove attoriale dei quattro protagonisti (soprattutto quelle della Bloom e di Julie Harris) e particolarmente efficaci le dinamiche, le interazioni, che si creano fra loro con un’alchimia altamente ambigua (nel definire la quale non è certamente secondaria l’inclinazione lesbica di Theo).

Da non prendere invece in considerazione il brutto remake a colori girato nel 1999 da Jan de Bont con qualche variazione tutt’altro che ininfluente (Haunting – Presenze)  e dove a latitare è proprio l’atmosfera complessiva, resa troppo “veritiera” e unidimensionale dall’invadenza degli effetti speciali (superflui e praticarmene incapaci di creare una genuina suspense).

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