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Dove non ho mai abitato

Regia di Paolo Franchi vedi scheda film

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La recensione su Dove non ho mai abitato

di alan smithee
4 stelle

Francesca e Massimo sono due estranei accomunati solo da due circostanze: la professione, che la prima tuttavia non esercita da anni, al contrario del secondo, ed una figura autoritaria di tipo alpha che serve alla prima come legame con le proprie origini, ma da tenere a debita distanza, e come modello di riferimento a cui tendere nella propria carriera, il secondo: il celebre architetto Manfredi.

Francesca è la figlia cinquantenne di costui, ultra ottuagenario e dispotico che, da quando è rimasto vedovo, decenni prima, della sua carissima consorte, pure lei famosissima architetto, è tornato a vivere nella sua Torino. La figlia invece ha scelto Parigi, la città della madre e, sposando un ricco finanziere, ha da anni ormai del tutto abbandonato la professione, con disappunto e sprezzo dell’anziano genitore, che non perde occasione per rinfacciarglielo.

In occasione di una delle sue rare visite al padre, Francesca è costretta a fermarsi oltre il tempo previsto a causa di un incidente domestico che costringe l’anziano genitore a restare a letto in seguito alla rottura del femore. In quella occasione ecco che il padre cerca di coinvolgere la figlia a prendere le redini di un importante lavoro di consulenza per la messa a punto dei dettagli di una villa moderna in corso di costruzione fuori città.

La circostanza spiazza la figlia e la mette in contatto, oltre che in apparente competizione, con il cinquantenne Massimo, uomo di fiducia e delfino del vecchio Manfredi, nemmeno poco visibilmente pittato dell’affronto che il maestro gli ha inflitto accostandole la figlia nella direzione dei lavori di messa a punto dei dettagli finali del prestigioso immobile.

Contrariamente alle apparenze, per entrambi quella vicinanza forzata e apparentemente fastidiosa, apporterà il giusto slancio per credere l’una veramente in se stessa, e l’altro per riflettere sulle potenzialità non accuratamente valutate relative alle persone che lo circondano.

La storia introspettiva di un rapporto forzoso che cambia gli atteggiamenti ed i caratteri ci sarebbe e viene anche, almeno in parte, validamente tratteggiata, grazie anche all’apporto fornito dai due ottimi protagonisti (Fabrizio Gifuni e Emmanuelle Devos) nel costruire e delineare i dettagli più intimi e privati di una rivoluzione emotiva che resta racchiusa ognuna addentro ai rispettivi interessati.

Infastidisce tuttavia, e molto, anzitutto la prosopopea con cui si delineano i tratti, individuati soprattutto in taluni personaggi di contorno (la coppia scoppiata dei due giovani acquirenti della villa in corso di finitura), ma essenziali al disbrigo della vicenda, di una borghesia di tipo alto che si estranea da ogni possibilità di realismo od approccio probabile con la realtà di oggi, appesantita oltremodo da dialoghi pesanti e poco credibili, da situazioni al limite dell’imbarazzo, se non dello scult.

Non che si potesse sperare né pretendere qualche lontano sprazzo di lucida satira sociale che invece dilaga nei capolavori di un esperto demolitore della classe alto-borghese come Bunuel; ma un minimo di ironia qui, in questo contesto così inflessibilmente impostato, sarebbe stato salvifico per scongiurare l'imbarazzo di molte situazioni o dialoghi difficili da accettare o digerire.

Rendendo accettabile persino la figura professionale ardua da assimilare come quella di un tecnico "dell'aria fritta" che è il nostro architetto Massimo, e tutto il contesto serioso ed improbabile che lo circonda.

Ed anche la figura dell’anziano autoritario genitore (interpretato inevitabilmente in modo macchiettistico e surreale da Giulio Brogi, a mio giudizio personalmente incolpevole, ma più che altro vittima di un personaggio penalizzato nella costruzione, eccessivamente idealizzato, se non proprio stereotipato, troppo proteso a delineare i tratti forse ormai logori del vecchio capriccioso che sa di valere e si sente autorizzato a pretendere che tutto scorra nel modo egoisticamente desiderato) appare logora e monocorde, trascinata da un’unica elementare ossessione che diventa un capriccio senile sin troppo facile a cui appigliarsi per dare snodo ad una vicenda che perde dinamismo e si ripiega su se stessa.

Per non parlare dei tratti insopportabili e bolsi di una professione, quella dell’architetto-filosofo dalle mille soluzioni avveniristiche, che costringe anche un attore del calibro del Gifuni, a soccombere di fronte a discorsi celebrativi di un’arte che è pura teoria dell’inconsistenza, qualora dovrebbe invece apparire come l’esatto opposto e puntare ad una concretezza che latita ovunque, come nel mondo delle favole.

Paolo Franchi non è mai stato un cineasta di storie facili o alla ricerca di facili consensi - glielo abbiamo sempre riconosciuto - e da questo punto di vista le sue pellicole hanno sempre saputo guadagnarsi la stima di molta parte della critica, ben più che il seguito facile o ruffiano di folle di pubblico.

Qui tuttavia, nonostante l’innegabile sforzo produttivo, e gli eccellenti nomi (alcuni già citati) che appaiono ad arricchire un cast complesso e bilingue (le musiche sono curate dal compositore cult del cinema internazionale, quel Pino Donaggio preteso in quasi ogni gioiello “depalmiano”), si respira inevitabilmente un’aria viziata, asettica, in grado di creare più imbarazzo che vero attaccamento verso almeno uno dei due vulnerabili personaggi.

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