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Il giorno della locusta

Regia di John Schlesinger vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Il giorno della locusta

di spopola
8 stelle

I difetti ci sono e sono anche copiosi, dovuti però a un “eccesso di cuore e quindi perdonabili. Bastano infatti le straordinarie scene conclusive a nobilitare l’opera. E in ogni caso una buona rilettura del magnifico racconto di Nathaniel West da cui trae origine definito da Scott Fitzgerald il più bel romanzo scritto su Hollywood e il suo mondo

Ogni volta che mi capita di rivedere “Il giorno della locusta” (cosa che è accaduta proprio in questi giorni), ritrovo inalterate tutte le emozioni “della prima volta” che sono state molteplici, profonde e avvolgenti, tanto che mi sembra davvero impossibile che l’opera abbia suscitato alla sua uscita sugli schermi, una levata di scudi così consistente e abbastanza omogenea, da parte di una critica particolarmente feroce (soprattutto in patria) più interessata ad evidenziare principalmente i “limiti” del risultato, piuttosto che sottolineare gli indubbi “pregi” dell’operazione che pure esistono e sono molteplici, comunque la si pensi. Colpa forse dell’eccessivo (e per alcuni “scomodo”) successo riscosso da Schlesinger, a quei tempi decisamente sulla cresta dell’onda (un periodo particolarmente fecondo per il regista che proprio in quegli anni avrebbe realizzato alcune opere “fondamentali” della fase americana della sua carriera). Il film viene infatti dopo gli osannanti riconoscimenti decretati a un assoluto “cult” come “Un uomo da marciapiede” (solo di pochi anni precedente) e immediatamente prima de “Il maratoneta”, un altro indiscutibile trionfo planetario anche sotto il profilo degli incassi. E’ inevitabile persino dubitare che tanta acrimonia sia attribuibile per lo meno in buona parte, a una forma implicita di “accanimento” programmato che spesso in America (ma non solo) trova il bersaglio preferenziale proprio in coloro che sono arrivati troppo in fretta (e forse inaspettatamente) al successo e al riconoscimento massimo del “premio dei premi” come spesso si ama definire con eccessiva enfasi e supponenza, l’Oscar (siano essi registi o attori), e devono essere di conseguenza “ridimensionati” ad ogni costo (persino “puniti” per l’ardire) per riportare in parità la bilancia ed evitare (o per lo meno scoraggiare) pericolose “alzate di testa” mai gradite (gli esempi sotto gli occhi di tutti, sono molteplici ed eclatanti: quanti nomi altisonanti sono stati precipitosamente ricacciati nella polvere direttamente dalla gloria effimera degli altari al primo impercettibile “passo falso”!!!). Quale migliore occasione di questa allora, visto che l’opera sulla quale era “necessario” infierire stava registrando un imprevedibile e clamoroso “flop” al botteghino (un peccato tutt’altro che veniale per l’industria cinematografica di oltreoceano) e che questa circostanza “sfavorevole” avrebbe sicuramente neutralizzato la levata di scudi di possibili “difensori d’ufficio” che potevano essere intenzionati a difenderne le sorti? Esisteva inoltre anche un’altra fazione decisamente ostile (che per ragioni opposte avvertiva il bisogno di sfogare il livore per la propria delusione), una congrega eccessivamente “idealista” indisponibile a perdonargli quelle che venivano considerate le “facili e inopportune” concessioni alle regole e ai “bisogni” imposti dall’industria Hollywoodiana, valutate quasi come una vera e propria “messa in svendita del proprio talento” (una preoccupazione premonizione tutt’altro che peregrina, visto come sarebbero poi andate le cose, soprattutto nella spenta fase conclusiva della sua carriera, che vede probabilmente “emergere” e “galleggiare” solo “Cold Comfort Farm”, non a caso girato ancora una volta a basso costo e in Inghilterra) che lo avevano portato, secondo il loro punto di vista, ad incamminarsi su una strada più “comoda” e accattivante ma di gran lunga meno “personale”, che sembrava voler contraddire – pur mantenendo comunque alto il livello - non solo lo sguardo più “francescano” e intimista, decisamente stimolante e innovativo dei suoi esordi, ma anche quello del pregnante intermezzo di “Domenica, maledetta domenica” nuovamente girato in patria immediatamente prima di quest’opera, che riconfermava con forte evidenza quale poteva essere la differenza del suo “tocco” quando l’ispirazione era stimolata in maniera adeguata, il “tema” fortemente provocatorio e sentito, e forse poteva appoggiarsi su un sistema produttivo che gli garantiva maggiore libertà di movimento. Per fortuna non proprio tutti la pensarono così e qualche isolata voce fuori dal coro e più “neutrale”, si alzò da subito in difesa del risultato (non sufficiente però a ristabilire l’equilibrio). Credo allora che adesso, passati i “furori uterini” dell’epoca, i tempi potrebbero essere maturi per riconsiderare questa pellicola con maggiore oggettività critica (restituendo a Cesare ciò che è di Cesare) cosa che – sarebbe auspicabile ed opportuno – potrebbe (dovrebbe) portare a un ripensamento capace persino di ribaltare il negativo giudizio finale espresso dalla maggioranza. Certamente non è una pellicola esente da difetti, ma credo che le “manchevolezze”, persino le prolissità rimproverate da molte parti e che pure esistono anche copiose, debbano essere imputate non a superficialità o presupponenza, ma semplicemente a un “eccesso di cuore”, un elemento che al cinema è importante, ma che in questa circostanza poteva apparire pleonasticamente contraddittorio con la struttura analogamente tragica, ma molto più virata verso il versante della satira al sistema, del magnifico racconto di Nathanael West da cui trae origine (non a caso definito da Francis Scott Fitzgerald, un altro testimone acido e disilluso di quell’ambiente, “Il più bel romanzo scritto su Hollywood e il suo mondo”. In effetti, il film è molto fedele al libro per quanto riguarda la storia, privilegiando però “l’ira e il lamento” che rappresentano due riconoscibili tracce della scrittura, ma non le sole disponibili. La scelta era probabilmente obbligata, non solo per la “natura” stessa del regista, ma anche perché (parlo della produzione sostenitrice del progetto) si ravvisava proprio in questa prospettiva di evidente drammaticizzazione quasi esasperata degli eventi, il veicolo necessario per poter esprimere in immagini con la indispensabile forza coinvolgente, quella spietata analisi al sistema che rappresenta il succo del racconto e che si esemplifica poi in un pesante giudizio di condanna senza possibilità di appello. Già la sceneggiatura di Waldo Salt, risulta infatti elaborata in perfetta sintonia con questa impostazione. Si può oggettivamente “rintracciare” ancor oggi una certa “pesantezza dell’insieme” (forse gli anni e la successiva più frenetica “frantumazione” del linguaggio rendono la cosa persino più evidente) attribuibile in parte alla farraginosa eccessiva lunghezza della pellicola (anche se poi l’analisi delle singole scene renderebbe, almeno dal mio punto di vista, oggettivamente difficile ipotizzare in quali direzioni indirizzare possibili “alleggerimenti” visto che ogni cosa che viene rappresentata risulta – e può sembrare una contraddizione in termini, ma non lo è assolutamente - importante ed essenziale). Se l’insieme quindi non è esente da a qualche squilibrio oggettivo, le singole immagini sono tutte esaltanti, con alcuni momenti davvero superlativi che rimangono indelebili nella memoria, non solo per la loro visionarietà, ma anche perché capaci di amplificare la forza penetrativa della comprensione con la loro cattiveria graffiante, un percorso fortemente critico facilmente assimilabile e particolarmente omogeneo con il livello “straziato” della parola utilizzata nel racconto di riferimento. La datazione della storia è quella dei “mitici” anni 30 (ma la “dannazione” che viene rappresentata è purtroppo ancora di una attualità sconvolgente, perché se cambiano gli scenari, non si modificano le implicazioni terribili che la determinano (spostandosi magari dal cinema alla televisione) come rimangono inalterate le considerazioni non soltanto “morali” o “sociologiche, del giudizio. La protagonista è Faye (Karen Black) avvenente e “disponibile” comparsa in stile Jean Harlow, una fra le tante “disperazioni” in cerca di affermazione e fortuna, che compongono quello sciame di poveracci destinati al fallimento (simile a una avvolgente nuvola di locuste affamate) che planano ogni giorno sulla mecca del cinema alla ricerca di fortuna, ma che vedranno invece infrangere le loro speranze nell’ipocrisia del sistema, travolte e corrose dalla crudeltà dei costumi e dalle bugie di quella “terra falsamente promessa” e ambiguamente propiziatoria. Figlia di un vecchio comico ormai in disarmo, la donna si mostrerà disponibile ben oltre il lecito e il consentito, ad accettare i moltissimi compromessi del sistema per “tentare” di emergere, arrivando persino a prostituirsi, anche se per il “nobile” scopo di poter pagare i funerali del padre. Accecata dal demone del successo, non vorrà dare adeguato spazio ai sentimenti, e troverà per questo troppo ingombrante (rifiutandola) la corte di Tod (William Atherton), un giovane disegnatore/scenografo analogamente alla ricerca della gloria ma con una integrità morale all’apparenza meno vulnerabile. In attesa dell’inarrivabile “colpo di fortuna, si accoppierà - più per convenienza che per altro - con un timido ed inibito contabile venuto dalla provincia (Donald Sutherland) che darà fondo ai propri risparmi per mantenerla e ricoprirla di regali ricevendo in cambio solo prove umilianti che lo renderanno sempre più vittima della propria predestinazione. Il destino metterà ancora di fronte Tod e Faye (entrambi comprimari e compartecipi) sul set di un film storico “mal costruito” ed insicuro che crollerà durante le riprese causando molte vittime fra le comparse mettendo a rischio la vita stessa della donna, e la drammaticità dell’evento riuscirà a far rinascere per un momento la passione. Ancora una volta rifiutato, Tod si vendicherà raccontando al contabile i vergognosi trascorsi della donna e arriverà persino a tentare di violentarla, perdendo ogni remora raziocinante. Il finale inevitabile e catartico, sarà tragicamente allucinato: frustrato e disilluso, il contabile deciderà di abbandonare Hollywood, tentando di districarsi scoraggiato fra la imponente folla ammassatasi per le strade per applaudire le dive in passerella convenute al gran gala cinematografico di una “prima”. Dovrà però subire ancora una volta in questa atmosfera quasi surreale, gli scherzi malvagi orditi da un perfido ragazzo dispettoso che lo perseguita da tempo, adesso più che mai insostenibili. Il mite e rassegnato ometto, troverà così per una volta, la forza di ribellarsi al sopruso e in una scena di altissima e disperata tensione che evidenzia tutto il malessere nascosto di un disagio per troppo tempo interiorizzato, “esploderà” in tutto il suo furore in un pestaggio mortale davvero disturbante (ma anche fortemente liberatorio) che non può lasciare indifferenti per la potenzia esasperata della furia distruttiva che lo determina, e che sarà a sua volta causa e pretesto per determinare la reazione inconsulta del “branco: sarà per questo a sua volta linciato dalla folla inferocita che ha assistito attonita al pestaggio. La degenerazione a questo punto sarà generale, ogni inibizione preclusa e tutto potrà essere distrutto, con un saccheggio selvaggio che trasformerà in rogo la città, travolgendo lo stesso Tod, puto e impotente testimone che, seppure ferito, si allontanerà poi per sempre, definitivamente disgustato dal quella falsa fiera delle vanità e dei sogni impossibili, lasciando così Faye davvero sola con i suoi fallimenti ad affrontare il rimorsi delle illusioni infrante. Il film è dunque denso di avvenimenti ad altissima tensione emotiva che l’ottima fotografia di Conrad Hall ci restituisce in maniera ottimale con la sua splendida, inappuntabile “cornice d’epoca” capace di farci percepire “il rumore del tempo e il colore dei suoi strazi”. L’opera sarà pure in qualche parte “pletorica e disuguale” ma io la trovo così selvaggiamente conturbante, che mi rimane davvero impossibile non esaltarmi di fronte alle scene che si susseguono con ritmo incalzante, moltissime delle quali degne di citazione per la loro qualità indiscussa (cito fra le tante, quella della lotta dei galli, che è un preannuncio e una sintesi “disturbante” di ciò che accadrà, così intrisa di furore, passione e morte; la lunga sequenza del crollo delle impalcature sulle quali è costruita la collina all’interno dello studio, con quel convulso accavallarsi di corpi destinati in gran parte a sfracellarsi fra i rottami rovinosi della struttura, girata con maestria estrema e una tecnica davvero strabiliante per “veridicità” e precisione, e soprattutto il culmine difficilmente eguagliabile di un pre-finale davvero da antologia, quando il linciaggio e l’incendio rivivranno anche visivamente, “animando” le tavole dei disegni dello stesso Tod, che diventano così deformazione espressionista di una follia esplicitata attraverso i ghigni feroci quasi disumani di una mostruosità che si rivela per una volta in tutto il suo desolante squallore ben oltre le trattenute apparenze della convenzione. Certamente, rispetto al romanzo si sarà perso qualcosa dell’ironia graffiante del linguaggio utilizzato da West, ma ne ha guadagnato il lato visionario e apocalittico dell’insieme, che fonde ottimamente, pur con un certo eccesso di enfasi e di ridondanza, l’indignazione e la pietà per ciò che viene rappresentato. La rievocazione del “clima miracolistico e ipocrita di una società di impositori” che fa da sfondo alle vicende narrate è, come già abbiamo accennato, accurata e pregnante, con una attenzione maniacale proprio a “quella” atmosfera e a “quelle tensioni” e riemergerà malinconicamente persino nel riverbero ambiguo di alcune scene recuperate da un porno film dell’epoca. Morbida e suadente la colonna sonora di John Barry che “riprenderà” a sua volta alcuni hits del tempo, facendoli riecheggiare ossessivi nel suono graffiato dalle puntine di grammofoni un po’ afoni e stridenti. Fra i tre protagonisti, spiccano le rese della Black che riesce a far emergere attraverso la sua recitazione nervosa, tutte le contraddizioni del personaggio a lei affidato e Donald Sutherland, a volte un po’ troppo sopra le righe nella caratterizzazione del perdente, ma la sequenza della ribellione finale, di quell’imprevista pazzia, è da sola sufficiente ad assolverlo pienamente nonostante qualche eccesso di troppo. Wiilliam Atherton è più in sordina, quasi “scolorito” sul fondo nonostante l’importanza fondamentale del ruolo, ma trovo eccessive le critiche di insufficienza che lo bollarono all’epoca. Mi sembra infatti che quel suo risultare “quasi invisibile” sia una caratteristica che ben definisce il suo personaggio, perché sia pure “senza fare moltissimo” costruisce ed evidenzia il pudore del doloroso percorso di una figura che è davvero il fulcro delle pulsioni ma ne rappresenta in fondo, il “partecipato” ed “esterno” commentatore. Da capogiro il cast di contorno che affianca il nome della grandiosa Geraldine Page (qui in una piccola ma forte caratterizzazione) a quelli di Burgess Meredith, Bo Hopkins e Lelia Goldoni che ricorderemo tutti quale eccezionale protagonista di “Ombre” di Cassavetes del 1959.

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