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Chiamami col tuo nome

Regia di Luca Guadagnino vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Chiamami col tuo nome

di BigSur
7 stelle

Molte luci (splendidamente fotografate) e qualche ombra di troppo nell'incontro dapprima spigoloso, poi sempre più intenso ed appassionato, tra Elio e Oliver, eroi del trionfo internazionale di Luca Gudagnino. Un'estate che cambierà la vita nel momento più intenso di una giovinezza che si fonde con la bellezza dell'arte e del paesaggio.

Avevo deciso di non scrivere di Chiamami col tuo nome. 

Molto è già stato detto, il meglio probabilmente. E non volevo farlo per il film in sé (sul quale, se si avrà la pazienza di continuare, si leggeranno non poche riserve) ma per certe reazioni puerili e mediocri che il tema dell’omosessualità provoca nell’ancora gretta “società” italiana da cui FilmTv è, per fortuna, solo sfiorato. 

Ma quando anche qui si leggono bestialità sulla presunta pornografia o di "corporeità nauseante" per poi pretestuosamente svilire persino la prova attoriale in un diniego, vero meccanismo di difesa, che divertirebbe pure uno psicoterapeuta da scuola Radio Elettra; se ci si arrabatta per convincere che no, basta piazzare due etero nella storia per dimostrarne l’inconsistenza, la voglia di mandare un po’ di gente a farsi fottere è legittima. Tranquilli, niente di personale. 

 

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Chiamami col tuo nome è un film su una passione tra due giovani di sesso maschile e non credo possa essere percepito, dibattuto e contestualizzato con la dovuta accuratezza se si tralascia che ciò che viene mostrato è desiderio, seduzione e conoscenza omosessuale.

Filmare l’innamoramento di Oliver e Elio acquista senso anche perché è un innamoramento tra due persone dello stesso sesso in quel contesto e in quell’epoca, che può essere pure una scelta strumentale o astuta di Guadagnino. Passione che sarebbe proibita, osteggiata, censurata, vilipesa se vissuta pubblicamente. Certo, niente di nuovo sotto il sole, soprattutto se si pensa alla filmografia da regista dello sceneggiatore Ivory.  Eppure, in questo caso, tutto rimane alla stregua di un sottotesto di cui il pubblico inconsapevolmente si fa portavoce, poiché qualsiasi allusione a un eventuale scandalo viene volontariamente elusa.  Guadagnino, infatti, capovolge le aspettative di una storia che potrebbe essere scabrosa infondendole la freschezza di un’epifania carnale e sentimentale in una pigra estate che tale non sarà più. 

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Chiamami col tuo nome non vuole raccontare una storia nuova quanto piuttosto filmare il desiderio e la costruzione di un’identità attraverso la rivelazione e la realizzazione di quel desiderio nel breve spazio di un’estate magica. Una magia che si compie perché rivissuta attraverso l’idealizzazione dei ricordi di Elio, e questa è di gran lunga la migliore qualità di Guadagnino. Inutile sforzo quello di trovare del puro naturalismo in ogni scena lamentandosi per il bagliore troppo brillante di situazioni inverosimili. I difetti del film sono altri. 

 

Non mi spingerò a sostenere che solo chi è omosessuale potrà cogliere appieno la bellezza e la forza del pianosequenza della dichiarazione ai piedi della statua dei caduti nella battaglia del Piave; o della struggente protesta notturna di Elio che sussurrando traitor... traitor... nel suo letto accusa l'apparentemente incurante Oliver. Sono, al di là della loro stupefacente qualità cinematografica che rende queste scene più felici di altre comunque riuscite, momenti che richiamano il vissuto drammatico o esaltante di chiunque abbia desiderato e amato in quel particolare momento della vita in cui la propria persona, la propria identità, comincia ad assumere una forma meno sfuggente. Forse è che questi momenti sono ancora più entusiasmanti o tragici per chi ha dovuto, nella vita reale, viverli nel silenzio e nella segretezza, se non nella colpa.

 

Proprio per questo, oserei dire, le scene di fisica intimità tra Elio e Oliver hanno davvero qualcosa di inedito nel cinema odierno. Elio non esita a sfiorare il sesso di Oliver al primo vero disvelamento della sua passione tra l’erba dei campi con una delicata sfrontatezza che non appartiene a chi dubita, non soltanto di sé, ma neppure della legittimità e della purezza del piacere carnale.

Guadagnino va tranquillamente oltre: nudità appena accennate sono stravolte dalla scelta di mostrare il “dopo”, che in genere è occultato perché sgradevole, soprattutto se non immediatamente associato al sordido (così ben vezzeggiato al cinema). Che il luccichio lunare del seme sul petto di un Oliver scevro da ogni impaccio, o la sua ostinazione a voler addentare l’ormai celebre albicocca star dell’autoerotismo di Elio, disturbino lo spettatore della domenica o il machito frustrato, tanto meglio.  

 

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Se non altro, sono segni rivelatori di una nuova sfaccettatura dello statuario dottorando americano: la sessualità tra uomini gli è più consueta, la sua sarà una rivelazione diversa, forse più dolorosa, poiché non avrà la forza di deviarlo da una traiettoria segnata dagli obblighi sociali e dalle aspettative familiari. O almeno è ciò che il più giovane Elio desidera ricordare.

L’incantevole scena della stretta di mano con il braccio della statua emersa dalle acque del lago di Garda risuona di molteplici echi: impone ancora una volta lo sguardo sul piacere della tattilità curiosa, gioiosa e senza compromessi e allo stesso tempo suggerisce il futuro di un Oliver che si distacca dalla totalità offerta e pronta ad essere vissuta da Elio opponendole una sorta di protesi “apollinea”.

 

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Detto questo, si potrà obiettare che i richiami continui di Guadagnino a un’estetica cinematografica ben definita (capisco Bertolucci – anche quello peggiore – ma Pasolini non c’entra nulla, per favore), alla perfezione formale dell’arte figurativa classica che allude costantemente alla bellezza dei corpi dei protagonisti, al multiculturalismo dell’alta borghesia colta e internazionale che ritrae volentieri nelle sue storie, sia alla lunga un po’ leziosa.  Se quel mondo non gli appartiene, è almeno quello a cui Guadagnino aspira, che ama e che lui stesso tende ad idealizzare, impregnato di una visione che percepisce il passato come una civiltà ancora viva e vibrante, ricca di segreti sorprendenti, e che per questo riesce ad abbracciare l’inverosimile. Grazie agli stupefacenti cromatismi del direttore della fotografia Sayombhu Mukdeeprom, anche queste forzature passano volentieri e sembrano motivate. 

 

Ma Guadagnino è anche un regista che a volte non controlla la propria materia, in particolare quando si tratta di ritrarre l’odiata patria che lo ha ripudiato o che, ancor peggio, lo ignora.  

Quando vuole mostrarsi benevolo suona falso (Oliver che fa lo splendido giocando a carte con i vecchietti nel bar del paese) o grottesco (l’incontro con i tre nell’auto accanto alla chiesa e il ballo con la darkettona romagnola – ma chi l’ha doppiata, anche in originale, Crozza?).  

Quando vuole essere sferzante crea purtroppo imbarazzo – l’insulsa scena in giardino con la coppia isterica che discute di politica. Nei momenti in cui Guadagnino non domina la propria debolezza, diventa didascalico. Il film è brillante ed entusiasma quando si insinua nel microcosmo creato dall’unione di Oliver e Elio e si libra tra il paesaggio di questo squarcio di Italia minore. Eppure, sembra perdersi con quasi tutti i personaggi secondari e mentre cerca a tutti i costi di situare storicamente il racconto tra gadget sottoculturali e memorabilia grondanti di nostalgia di un recente passato.

 

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Non riesco a condividere i giudizi esaltanti per la coppia Pearlman, incarnata da Michael Stuhlbarg e Amira Casar, figure statiche malgrado tutto l’agitarsi del padre di Elio e la sensibilità dell’impeccabile, dolce mamma Annella, in fondo anemica. Eccessivamente scritto e didattico, pur con le migliori intenzioni (probabile che sia ricalcato pari pari dal romanzo di André Aciman), mi è apparso il celebrato monologo chiave del film del padre di Elio, così com’è stonata la sua ricerca di una complicità con il figlio che per la prima volta fa affiorare un’inconsapevole morbosità.

Forse la parabola discendente del film comincia proprio dagli ultimi tre “romantici” giorni insieme dei due innamorati prima della separazione. Nulla di più è aggiunto alla narrazione, che avanza per ridondanze, al punto che Chiamami col tuo nome smarrisce qui il suo mistero, quello che il reciproco abbandonarsi di Elio e Oliver, nel loro magistrale scambiarsi di nome come un giuramento rituale, aveva suggellato.

Fortunatamente, per il film e noi tutti, la mirabile, toccante sequenza finale riannoda tutti i fili più preziosi per chiudere maestosamente il sipario, dischiudendosi però verso un incerto ma più consapevole futuro per Elio le cui lacrime lasciano sul suo volto una trama imprevedibile.

 

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Timothée Chalamet e Armie Hammer sono perfetti, il doppiaggio italiano (e ho visto solo il trailer) da denuncia penale.

 

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