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Sotto tiro

Regia di Roger Spottiswoode vedi scheda film

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La recensione su Sotto tiro

di spopola
8 stelle

Un connubio ben miscelato di amore, politica e avventura diretto con onestà e totale adesione ideologica da un regista che qui è bravissimo a raccontare con un impegno civile da far invidia al miglior Stone, la genesi della rivoluzione sandinista filtrata attraverso lo sguardo turbato dal sentimento di un inviato di guerra non scevro da passioni.

Peccato che dopo questa pellicola il regista non abbia mantenuto nessuna (o quasi) delle positive promesse che “Sotto tiro” poteva far immaginare invece “corpose” e produttive. Un impegno civile il suo (almeno in questa circostanza) da far invidia all’Oliver Stone dei tempi migliori, profuso a piene mani e con intesa “passione”, per raccontare la genesi della rivoluzione sandinista, concedendo è vero anche molto all’elemento “romanzesco”, ma senza dimenticare il rispetto e la credibilità di altri episodi veramente accaduti, già di per se sufficientemente tragici da indurre alla riflessione critica, e con la non usuale capacità di tessere le trame in modo “ordinato” e corretto così da non far risultare stridenti fra loro i due percorsi in apparenza divergenti, ma di farli amalgamare invece con credibile realismo in un tutt’uno omogeneo ed appassionante fra inseguimenti, sparatorie, incendi e soprassalti della coscienza . Insomma un connubio ben miscelato e riuscito di amore, politica e avventura diretto con onestà e totale adesione ideologica, a partire da una interessante e intensa sceneggiatura di Clayton Frohman e Ron Shelton, che è un supporto davvero determinante per consentire al regista di mantenere alto il senso della tensione per tutta la durata della pellicola senza “cedimenti” o “sfilacciature”. Il nucleo principale del racconto affronta, al di là delle vicende personali che servono a rendere più effervescente ed “emotivamente infuocata” la materia, un tema che ancor oggi risulta centrale e attualissimo (soprattutto se si considerano gli avvenimenti recenti e le implicazioni anche morali che ne derivano): quello della professione del corrispondente di guerra e di quanta conformità “identificativa” esiste davvero di fronte a tragedie epocali come questa, fra la indispensabile neutralità di pensiero dell’osservatore imparziale e ciò che egli invece è, sente e pensa, tutti elementi che possono in qualche modo riuscire ad orientare e alterare la proiezione della sua visione. Come accennato, l’azione è ambientata in Nicaragua, nel luglio del 1979, nel momento in cui Anastasio Somoza, erede di una dittatura familiare che durava da oltre un quarantennio, fu costretto a lasciare il potere a seguito della rivoluzione di quel popolo martoriato. Sullo sfondo di questi eventi, si racconta la storia di tre giornalisti americani, testimoni e protagonisti indiretti di questi avvenimenti sanguinosi, che tentano di approcciarsi al problema senza pregiudiziali e con analoga “distanza” sia dalle ragioni dei guerriglieri che da quelle del despota, ancora una volta “protetto” e spalleggiato (come sempre in ogni stravolgimento che riguarda i paesi dell’America Latina) dal governo degli Usa: due uomini e una donna, travolti oltre che dalla guerra, anche dalla “passione” e dalle contraddizioni dei sentimenti, poiché la ragazza, Claire, precedentemente legata sentimentalmente ad Alex, il giornalista più anziano che lavora per una importante catena televisiva, finirà per diventare suo malgrado – rompendo in un certo senso gli equilibri - l’amante del “terzo incomodo”, l’intraprendente e volitivo fotoreporter in ascesa Russell. Ma ovviamente – e per fortuna – il triangolo sentimentale non esaurisce la sostanza e l’interesse del film, anche se ne costituisce l’ossatura prioritaria indispensabile per rendere più partecipativo e attento lo spettatore, poiché l’attenzione dello sguardo dell’autore utilizza il pretesto della evidente conflittualità dell’innamoramento per evidenziare meglio e con più profondità, gli elementi politici e civili insiti nel progetto. In effetti, Russell e Claire, via via che si “appropriano” con la necessaria oggettività di quella sconosciuta realtà, al cospetto della sanguinosa tragedia di un paese martoriato da una vera e propria guerra civile stretto fra gli intrighi della CIA e il cinismo dei soldati mercenari assoldati per difendere il potere, acquisiscono progressivamente coscienza dell’effettivo “inaccettabile” divario esistente fra la vita lussuosa del dittatore e la misera assoluta del popolo, finendo per schierarsi apertamente – e inevitabilmente – (come lo spettatore) dalla parte dei rivoltosi. Sarà questo spostamento dell’ottica diventata “partigiana” a spingere l’uomo ad accettare (mettendo così in discussione la sua idealizzazione che privilegiava invece la assoluta priorità della “fedeltà dell’immagine” senza adattamenti o mistificazioni) di fotografare, come se fosse ancora vivo, il loro leader ormai defunto, ma ancor più necessario per “mantenere attivo il progetto vittorioso dell’insurrezione”. La conseguenza di questo gesto paradossale, non sarà però indolore: se da una parte otterrà davvero lo scopo di galvanizzare i ribelli, fino a portarli alla conquista della capitale, consentirà nello stesso tempo a Somoza di individuare i loro nascondigli e di fare una strage sanguinosissima della quale rimarrà vittima lo stesso Alex (l’episodio è autentico e documentato) trucidato a sangue freddo dagli scagnozzi del tiranno sotto gli occhi del fotografo (che rischierà a sua volta di fare la stessa fine e si salverà a stento) reo di aver immortalato sulla pellicola la scena dell’esecuzione. Ci troviamo dunque di fronte a un ottimo esempio di cinema “ideologicamente impegnato” e decisamente in controtendenza che Spottiswoode (già collaboratore per il montaggio di Peckinpah e Reitz) realizza con ritmo incalzante, dimostrando davvero di aver ben assimilato la “lezione” dei classici d’azione, ma aggiornata con una visione dell'insieme più progressista e una metodologia alla Costa-Gavras che non disdegna nemmeno l’utilizzo del “melodramma" per rendere più pregnante e significativo il discorso. Il prodotto, pur con qualche eccesso di romanzesco che ogni tanto prende il sopravvento, è onestamente efficace e capace di indurre a una riflessione anche politica (magari più emozionale che ragionata) grazie al giusto dosaggio dei vari ingredienti che risultano ben emulsionati fra loro, pur privilegiando in qualche modo l’enfasi dell’orrore per una particolare insistenza sulle violenze e le atrocità che sorreggono e “giustificano” gli andamenti ondivaghi e i “sensi di colpa”, le responsabilità e i rimorsi, di questo triangolo dei sentimenti. Il tutto però –e per fortuna - senza dimenticare l’osservazione sociologica degli eventi che rappresenta la forza più consistente e il motivo di maggior pregio della rappresentazione. Ottima la fotografia di John Alcott e analogamente efficace la colonna sonora di Jerry Golsmith. Anche il cast è travolgente ed azzeccato, a partire da Nick Nolte che si conferma interprete ideale nel disegnare un personaggio concitato e perplesso come quello affidatogli, perfettamente in sintonia con il “disegno registico”. Che dire poi di Gene Hackmann come al solito “monumentale” nel rendere la complessità di Alex, le sue contraddizioni e i suoi “soprassalti”? Davvero una interpretazione maiuscola e fortemente incisiva la sua, difficilmente obliabile. Analogamente efficaci anche Joanna Cassidy (purtroppo ormai da tempo ingiustamente “ignorata” da Hollywood) affascinante e controversa Claire, Ed Harris, come al solito strepitoso nel disegnare la figura del mercenario, davvero molto di più di un tragico e “opportuno” contrappunto per la catartica definizione degli eventi, e Jean-Louis Trintignant, ottimo nel restituire tutta l’ambigua e spavalda sicurezza di uno strisciante ed enigmatico agente CIA.

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