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Per un pugno di dollari

Regia di Sergio Leone vedi scheda film

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La recensione su Per un pugno di dollari

di solerosso82
8 stelle

Nasce un genere. O rinasce il western. E molto altro ancora.

Sergio Leone, reduce dall’esordio alla regia con il peplum Il Colosso di Rodi, dopo una lunga gavetta come aiuto regista e direttore della seconda unità, iniziata con Ladri di Biciclette di Vittorio De Sica, appropriandosi poi brillantemente della lezione hollywoodiana sui set dei kolossal prodotti a cinecittà, come Quo Vadis e Ben Hur (quest’ultimo una vera e propria “fucina” di miti del cinema di genere italiano), realizza un western sul quale nessuna casa di produzione avrebbe voluto scommettere. Con il contributo alla sceneggiatura di Fernendo di Leo e Duccio Tessari, riadattando al mondo dei pistoleri yankee il soggetto de La Sfida del Samurai di Akira Kurosawa (e finendo poi accusato dallo stesso autore nipponico di plagio) convince tre piccole case di produzione (la romana Jolly Film, la tedesca Costantin e la spagnola Ocean) a finanziare questo bizzarro progetto, che diventerà in breve tempo un fenomeno di costume internazionale.

In un villaggio ai confini con il Messico giunge un pistolero solitario (Clint Eastwood), pronto a vendersi alle due bande locali, i Rojo e i Baxter, in un gioco di tradimenti che culminerà con la disfatta di entrambe.  

Leone può raccontare un’altra storia rispetto l’epopea mitica di cowboy e pionieri del western classico di John Ford, senza i limiti culturali del maccartismo (che trovava un suo fiero esponente nella figura di John Wayne): i suoi anti-eroi sono cacciatori di teste e mercenari solitari, bande criminali e contrabbandieri corrotti, immersi in una società marginale anarchica e violenta.

Clint Eastwood, il pistolero Joe avvolto dal poncho, dalla battuta tagliente, scaltro, impavido, empaticamente freddo e senza ideali, pronto a vendersi alla peggiore feccia per denaro, mostra però un barlume di bontà, seppur sempre secondario rispetto all’interesse personale. Egoista e cinico, dunque, senza remore o ipocrisie. Si muove con una libertà d’azione impensabile se non attraverso leggi di “sospensione della credulità” tipicamente fumettistiche. In questo contesto, Jean Maria Volonté, uno splendido villain tra il freak e il naif, può entrare in scena con una mitragliatrice e, da solo, massacrare un intero esercito.

L’Andalusia diventa pertanto la personale Monument Valley di Leone, un non-luogo metafisico, decontestualizzato dagli eventi storici della nascente civiltà americana, un crocevia di loschi furfanti e banditi. Come ricorda lo stesso Silvanito (José Calvo) a Joe, mentre spiano insieme il nemico, “Sembra di giocare agli indiani”: l’aspetto parodistico è fin troppo esplicito.

Leone inizia per certi versi un romanzo cinematografico su una sottocultura americana, quella dominata da una “mafia latente”, che culminerà con quel C’era una volta in America, suo testamento cinematografico. 

Non nasce dunque solo lo spaghetti-western, di produzione italo-spagnola, ma un vero e proprio fenomeno culturale internazionale che condizionerà l’intera exploitation di generi proliferati negli anni ’70, una “koiné cinematografica” all’insegna di protagonisti hard-boiled, grotteschi e badass, che condizionerà poi a sua volta il cinema machista reaganiano (quello di Stallone e Swarzeneggher), rivalutato poi sui red-carpet dalla critica internazionale grazie al contributo cinefilo e commerciale di Tarantino.

Un umorismo caricaturale che ha dunque origine nella tradizione surreale della commedia italiana e che emerge costantemente nelle battute brillanti di Eastwood. “Prepara tre casse (…) Mi sono sbagliato, quattro”, oppure, l’iconica e intramontabile “"Quando un uomo con la pistola incontra un uomo con il fucile, quello con il fucile è un uomo morto”. Il duello, il turpiloquio, la violenza esplicita diventano infine leitmotive.

Il budget bassissimo si evince in una regia ancora grezza, ma di grande suggestione, nell’uso magistrale di soggettive e primissimi piani, alternando sapientemente “l’horror vacui” dei silenzi ansiosi durante i duelli, con l’uso sistematico della colonna sonora di Morricone, di grande fascino evocativo.

La critica, specie quella italiana e europea, stroncherà la pellicola, ignara del potenziale di un prodotto divenuto presto un cult.

(Ri)Nascita di un genere e di un fenomeno culturale dunque, ma anche di un mito e di un grandissimo autore: Eastwood, comincerà la carriera registica proprio dal western, e sarà consacrato agli Oscar proprio con Gli Spietati, nel 1993. “A Leone devo tutto”, dirà. Non solo lui.

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