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Seoul Station

Regia di Sang-ho Yeon vedi scheda film

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La recensione su Seoul Station

di rj
8 stelle

Animazione coreana che tocca uno dei suoi picchi. Il film è una critica cruda, dura, spietata, alla società.

Una ragazza, il suo “padre” e il suo fidanzato devono mettere da parte i loro problemi personali e cercare di sopravvivere a un’apocalisse zombie che scoppia a Seoul, in Corea del Sud.

 

Seoul Station è un film che appare particolare sin dai primi momenti: i colori sono cupi (diversamente da ciò a cui l’animazione asiatica ci ha abituati), l’animazione è legnosa e meccanica, il contenuto tagliente. L’animazione, infatti, è molto “sporca”: i personaggi "scattano", si muovono in modo strano e sono molto rigidi. La prima cosa che viene in mente è la scarsa qualità (dovuta anche al budget ridotto, solo 575.000 dollari), ma è chiaro, osservando anche le opere precedenti del regista, che si tratta di una cifra stilistica. Sang-ho, infatti, ha già lavorato in passato a film d’animazione con uno stile molto simile a questo, proprio a causa dei bassi costi di produzione. Bisogna però considerare che, in questo caso, il codice stilistico si sposa perfettamente con il concetto che si vuole esprimere: il film è interamente una metafora e una critica della società.

Il movimento irregolare dei personaggi diventa, nel corso del film, una scelta consapevole e dotata di valore espressivo. Questo movimento rigido si rivela, durante la visione, un’immagine della vitalità ormai spenta dei personaggi che fanno parte di questo mondo: la loro vita è legata a quella degli infetti e non hanno più potere su di essa; di conseguenza, i movimenti meccanici diventano l’espressione di corpi che si muovono “roboticamente” proprio a causa della mancanza di emozioni. Questo stile contribuisce anche a rendere il film più “realistico”, dai toni cupi e maligni, come quelli del mondo reale, che non risparmia nessuno. L’animazione, dunque, crea un senso di disagio nello spettatore, con l’intento di trasmettere il messaggio che ciò che vede non è pura finzione, ma ciò che sta realmente accadendo in Corea.

Il film, infatti, affronta molti temi legati al degrado della società coreana. Il primo che salta all’occhio, forse perché già affrontato da Bong Joon-ho in Snowpiercer e ripreso in Parasite, è quello delle classi sociali. Fin dai primi minuti ci vengono mostrati personaggi che lottano per sopravvivere: senzatetto, prostitute, uomini disperati, autorità disinteressate a tutto ciò che non le riguarda. La divisione è chiara: ci sono coloro che dominano e coloro che sono dominati. Le autorità, ovviamente, dominano, mentre gli altri subiscono. Questa differenza sociale viene più volte sottolineata nel corso del film.

Parlando di classi sociali, c’è una metafora con cui il regista rappresenta questa separazione e il crollo morale di una società che pone il denaro e l’egoismo al centro di tutto: la zombificazione. Seoul Station non è un film horror sugli zombie che distruggono e uccidono, ma una metafora della morte della società (che è, in fondo, la morte “interna” delle persone). In questo modo si affronta anche la questione dell’origine del virus — domanda che, volutamente, non trova mai risposta.

Un altro tema molto importante è la marginalizzazione dei senzatetto, fortemente presente nel film e su cui il regista insiste con decisione, mostrandoci scene in cui i senzatetto vengono continuamente “ghettizzati”, per così dire. Le colpe sono sempre dei senzatetto, mai delle classi superiori o delle istituzioni: questo è evidente nella scena in cui vengono rinchiusi “in prigione” dalle guardie, quando l’uomo inizialmente cerca aiuto, nella scena dell’ambulanza dove vengono incolpati solo per aver chiesto di non essere portati in ospedale, o quando si decide di sparare ai senzatetto che saltano sull’autobus senza motivo apparente. Questo punto si lega anche alla critica di Sang-ho verso l’autorità: una critica alle istituzioni e al modo in cui esercitano il potere. Polizia e governo, che dovrebbero essere al fianco dei cittadini, finiscono invece per attaccarli, ucciderli, creare lobby ed escludere i meno fortunati, salvando solo sé stessi. Scegliendo di reprimere e isolare cittadini innocenti che chiedono aiuto, ma hanno un’unica colpa: essere poveri.

La cosa peggiore del film, tuttavia, è proprio il fatto che tutto ciò che si vede (gli zombie, il virus) altro non è che la società stessa, che opprime l’individuo e non gli permette di cambiare o di redimersi, come in una novella verista. Chi è dominato resterà tale, mentre chi detiene il potere, spinto da egoismo, rabbia e disprezzo per chi sta più in basso nella scala sociale, continuerà ad agire contro la maggioranza. Il risultato della disumanizzazione in questo film è perfetto.

Il film ricorre a orrore e violenza per descrivere questa società marcia, in cui persino i “buoni” non sono poi così puri. Non esistono bianchi o neri: tutti sono grigi, chi più chi meno.

Scelta impeccabile quella di utilizzare un film horror per raccontare tutto questo, e ottime sia le animazioni che i colori utilizzati. Il fatto che tutti indossino colori “spenti” e “morti”, tranne lei, è altamente simbolico: lei è la speranza, lei è il bene, è colei che può salvare questo mondo.

Il film è una sorta di prefazione a Train to Busan, il secondo film della trilogia ma il primo a essere uscito. I personaggi non si incontreranno mai, ma il successivo sarà in live action (cambiando completamente tipologia, ma non registro) e partirà dal virus che scoppia in questo film (e da un treno diretto da Seoul verso Busan).

Forse non sempre perfetto dal punto di vista sonoro, ma per ciò che ha da dire e per tutto il resto, funziona perfettamente.

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