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La ballata di Cable Hogue

Regia di Sam Peckinpah vedi scheda film

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La recensione su La ballata di Cable Hogue

di cheftony
7 stelle

“You’ve been awful nice to me, Hogue. Never bothered you none what I am?”
“Hell, no, it never bothered me! I enjoyed it! Now, what the hell are you? Human being! Try the best you can. We all got our own ways of living.”
“And loving?”
“Gets mighty lonesome without it. You know, miss Hildy, sometimes out here alone at night… Well, sometimes I wonder what the hell I’m doing out here.”
“Why don’t you live in town?”
“Don’t know about that. In town I’d be nothing. I don’t like being nothing. Been that before.”

 

The Ballad of Cable Hogue (1970)

 

Cable Hogue (Jason Robards) viene abbandonato in mezzo al deserto dai suoi due compari di sventure Bowen (Strother Martin) e Taggart (L. Q. Jones), senza cibo e senz’acqua. D’altronde era già un cowboy senza sella e senza dignità: si muoveva accompagnato da un mulo ed era in procinto di uccidere un’iguana per nutrirsene. Apparentemente condannato ad una morte certa, Cable rinviene una falda acquifera dopo aver vagato quattro giorni nel deserto; se ne abbevera e sopravvive miracolosamente.
Quel terreno costituirà la sua fortuna: collocato a metà fra le due cittadine di Deaddog e Gila City, è solcato da una traccia per il passaggio di diligenze. Sfruttando opportunamente la presenza di acqua, Cable si prefigge di costruire una stazione di servizio per gli avventori. Uno dei primi clienti a palesarsi ad una stazione ancora rudimentale è il reverendo inglese Joshua Duncan Sloane (David Warner), in realtà impenitente donnaiolo con un suo culto ed una sua visione del mondo.
Cable Hogue lascia l’esuberante predicatore a sorveglianza della polla d’acqua, ne prende in prestito il cavallo e si reca a Deaddog per attestarsi la proprietà di quel pezzo di terra e chiedere un prestito agli increduli banchieri della cittadina. Il primo incontro che Cable fa a Deaddog, però, è con Hildy (Stella Stevens), un’ammaliante bionda che si prostituisce nel saloon

 

“I’ve never picked any of my films. Except one, «The Ballad of Cable Hogue». That’s the only movie I ever picked to do.” [Sam Peckinpah]

 

Sam Peckinpah on the set of The Ballad Of Cable Hogue. | Sam peckinpah,  Film director, Sam

 

Nonostante gli anni trascorsi gli abbiano poi reso giustizia, anche un grandissimo film come “The Wild Bunch” finì con l’essere poco apprezzato e, in una certa misura, osteggiato dalla Warner Bros. Solo in Europa il capolavoro di Peckinpah ebbe ottimi riscontri grazie alla distribuzione di una versione montata abbastanza fedelmente ai suoi desideri, il che permise al regista californiano di mantenere sui corretti binari una carriera già in più occasioni traballante.
Ancor prima di portare a termine l’editing della succitata pietra miliare, Bloody Sam si era già gettato a capofitto in uno dei suoi progetti più voluti e amati, portandosi dietro nel deserto del Nevada collaboratori fondamentali come Lucien Ballard alla fotografia e Lou Lombardo al montaggio (elemento cardine del film precedente). Si tratta di “The Ballad of Cable Hogue”, un bislacco miscuglio di commedia romantica, avventura, revenge movie e western. Per quanto ambientazione e trascorsi del regista vogliano anche questo film tradizionalmente collocato nel filone western, tutto lascia pensare ad un impianto di base da commedia: toni leggeri, dialoghi ispirati, ricercati ed ironici, musiche(tte) a tema dedicate ad ogni personaggio e curate da Jerry Goldsmith. Ma è attraverso la regia che Peckinpah mette le cose in chiaro, ricorrendo ad una serie di espedienti per lui sicuramente atipici: titoli di testa accompagnati da split screen di vario genere, scenette di sapore quasi slapstick in fast motion, zoomate sulla scollatura di Hildy e persino un’animazione posticcia sull’effigie di un nativo americano su una banconota.
“The Ballad of Cable Hogue” si colloca in linea temporale fra due film violentissimi e potenti come “The Wild Bunch” e “Straw Dogs”; può sembrare strano, ma va ricordato come Peckinpah rifiutasse sprezzantemente l’attribuzione di stigmate autoriali, preferendo ritenersi una puttana (sic) assai capace di fare il suo mestiere e pronta a lavorare a progetti proficui, anche a costo di rimetter mano da cima a fondo a sceneggiature di basso livello. L’esperienza come dialoghista degli esordi, in questo senso, gli è sempre tornata utile: i protagonisti Cable e Hildy sono affiatati, delicati e stratificati, al centro di una storia d’amore mai banale o stereotipata. Inoltre, Jason Robards è davvero straordinario e anche la bionda modella Stella Stevens riveste con insospettabile abilità i panni della prostituta ambiziosa e genuina. Risulta invero meno a fuoco il personaggio del predicatore, nonostante l’istrionismo di David Warner.

 

The Ballad of Cable Hogue - Parallax View

 

Ma non si tratta solo di una commedia calata in un classico contesto western, per quanto l’amalgama non convinca del tutto: Peckinpah colloca la storia di Cable Hogue, pioniere loner e perdente, negli anni appena precedenti la Prima Guerra Mondiale, al tramonto dell’epopea del vecchio West. Il mito, già malinconico e decadente nelle sue opere precedenti, finisce qui (letteralmente) schiacciato dall’avvento della modernità. Ancora una volta, il simulacro di questo radicale passaggio è rappresentato dalle automobili che solcano sparute il deserto.
Se da un lato persistono alcuni temi peckinpahniani e altri più classici (ricerca della ricchezza, sete di vendetta), Bloody Sam abbandona l’estetizzazione realistica e dolorosa della violenza e i ralenti che fecero fortuna e storia di “The Wild Bunch”. In “The Ballad of Cable Hogue” le sparatorie e le scene di tensione – pur efficaci – si contano sulle dita di una mano.
Ormai Sam Peckinpah si era creato fama di irrimediabile, irascibile e alcolizzato puttaniere, con l’abitudine di cacciare via addetti di lavoro dal set e di far andare le riprese per le lunghe, finendo col far lievitare il budget. La scarsa simpatia per i produttori era palesemente reciproca e anche questo film ottenne riscontri deludenti fra mercato e critica statunitensi. Disgustato, il regista decise di cambiare aria ed autoesiliarsi in Inghilterra, dove riprese a lavorare poco tempo dopo grazie all’intervento di Daniel Melnick, il produttore di quell’operazione televisiva (“Noon Wine”) che ne aveva rilanciato la carriera nel ‘66. Si attirerà di nuovo polemiche e accuse varie, visto che sarà la volta di “Straw Dogs”

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