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Il salario della paura

Regia di William Friedkin vedi scheda film

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alan smithee

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La recensione su Il salario della paura

di alan smithee
10 stelle

locandina

Il salario della paura (1977): locandina

Dal racconto The wages of fear, du Georges Arnaud, già ottimamente trasposto al cinema da Henry-George Clouzot con Vite Vendute del 1953 (Le salaire de la peur), forte anche delle prove attoriali di Yves Montand e Charles Vanel, il regista ormai mito William Friedkin, reduce dal successo planetario de L'esorcista, si butta per quattro anni nel progetto più rischioso, azzardato, imponente e disgraziato – ma qualitativamente forse il suo punto più alto della carriera – con una nuova versione della drammatica epopea di quattro uomini alle prese con una missione impossibile, letteralmente "esplosiva".

Il titolo italiano riprende quello originale francese, ma Friedkin, non dimentico delle atmosfere sataniche del suo successo precedente, già dal titolo originale (Sorcerer) e dalla prima inquietante inquadratura concentrata su un bassorilievo dalle sembianze luciferine o comunque maligne, ci riporta alle atmosfere inquietanti della sua precedente esperienza.

Che riamangono comunque impresse in tutta la pellicola lungo tutta l'epopea, narrata con gran stile partendo dal racconto delle quattro esperienze che hanno condotto gli altrettanti fuggitivi a trovarsi esiliati in un devastato ed inospitale paese del Sudamerica, a lavorare come operai di fatica presso una industria estrattrice di petrolio ad uno stipendio di pura sussistenza.

Lo stile esemplare, maturo e retrò della narrazione che ci ricorda molto lo stile del John Houston dei grandi film anni '50, si adatta alla perfezione ad un film meraviglioso, una epopea senza tempo che finì per essere funestata da contrattempi atmosferici (gli stessi che si intravedono e rendono grande la pellicola in molte concitate situazioni al limite del precipizio o della fine) e traversie di ogni tipo, che bloccarono in più riprese la produzione rischiando di mandare a monte un progetto faronico e dai costi lievitati in modo spropositato.

Il film infatti fu un disastro al botteghino, snobbato, non compreso o valorizzato appieno forse neppure dalla critica di quegli anni.

Di fatto oggi un capolavoro di narrazione e dosaggio di suspence: un film che concede tempo per sviscerare le varie vicende che andranno ad introdurre quella principale, e che si snoda inflessibile e crudele esercitando sui quattro personaggi quell'ironica devastante punizione da contrappasso che li rende, ognuno a loro modo, delinquenti e traditori, ma anche così umani e poco avvezzi ad essere giudicati per le loro turpi azioni compiute in terra civile.

E l'elemento diabolico che torna in ogni occasione, come nella raffigurazione delle due ferraglie a motore dall'aria sinistra, tozza e tetra che dal davanti comunicano l'espressione maligna della scultura che apre la pellicola, e che condurranno i quattro disperati nel cuore di una foresta impervia, dissemitata di pericoli ed ostacoli di ogni tipo.

Bruno Cremer dall'occhio fieramente ceruleo è un bancario scaltro sull'orlo del tracollo, Roy Scheider un brigante di mezza tacca che porta alla disfatta un grosso colpo ai danni della chiesa; Francisco Rabal un killer spietato in fuga per depistarsi, ed Amidou un terrorista israeliano fuggito dopo un sanguinoso attentato.

La feccia della Terra alle prese con una missione – questa si - davvero impossibile, che trova il modo per tentare di riscattarsi, guadagnando in dignità ed onore, seppur mossi di base ancora una volta dal lucro e dalla fame insaziabile di ricchezza.

I due mezzi di fortuna che conducono le due coppie hanno l'aria sinistra e diabolica che si conviene al regista, alla immagine iniziale del film, al suo titolo sinistro e alla vicenda nel suo complesso, che sadicamente dimostra come nulla possa essere perdonato, e come la fortuna sembra un miraggio sempre troppo vicino da raggiungere rispetto all'effettiva distanza che da essa ci separa.

 

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