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Notte e nebbia

Regia di Alain Resnais vedi scheda film

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La recensione su Notte e nebbia

di spopola
8 stelle

Le immagini del film con la loro crudele carica di autenticità, non hanno perso un millimetro della loro forza dirompente. Un’"esplorazione sistematica del male" da meditare e riconsiderare nei suoi molteplici aspetti, non come semplice testimonianza del passato, ma quale elemento di fondamentale riflessione sul presente.

L’olocausto ha lasciato tracce visive terribili e inconfutabili dei misfatti compiuti come mai era accaduto prima. Di tutte le abominie della storia infatti, questa è la prima che ha permesso, proprio attraverso le documentazioni fotografiche e le riprese cinematografiche (e il film di Resnais è una delle più significative testimonianze proprio su questo versante), la rivisitazione reiterata del museo permanente dei propri orrori, così da renderci definitivamente edotti su “cosa davvero accadeva laggiù”, di come erano organizzate le spaventose e forzate dimore di uomini ridotti semplicemente a un numero, senza più volto e personalità, persone comuni e senza colpa alcuna se non quella di essere “anomali” rispetto al sistema, che il culto autoritario della razza, l’odiosa persecuzione degli inetti contro i forti, la spietatezza di un’ideologia perversa, costrinse ad abitare nella indifferenza colpevole del mondo intero. Mentre ancora le conferenze internazionali organizzavano simposi blaterando di ideali umanitari, il destino dei popoli era già segnato dalle ferree logiche della dittatura nazista che prima ancora di iniziare a ferro e fuoco la distruttiva opera di guerra, aveva già dato mandato esecutivo per l’assegnazione in appalto delle concessioni per la costruzione dei campi di sterminio, da gestire poi “a piacimento” – come ben racconta Resnais con la incursione drammatica nei fatti, ben oltre le conseguenze, ma risalendo fino alle radici di “quel” male – secondo il proprio stile e i propri gusti (o degenerazioni). Le future vittime vivevano ancora la vita di sempre, ignare e inconsapevoli, ma il loro destino era dunque già segnato, ed non era più possibile sfuggirlo. Così accadde infatti quando l’ordine giunse davvero e la stella gialla, i triangoli rosa, i “distintivi” di ogni altro colore o forma, comunque e sempre traccia di un “presunto” infamante e deprecabile disonore, furono cuciti addosso a vecchi, donne, uomini, bambini o combattenti che avevano il solo torto di non essere conformi: ebrei, omosessuali, zingari o comunisti, tutti accomunati da un atroce destino che non avrebbe lasciato loro scampo alcuno. Rastrellati in ogni parte dell’Europa, vennero stipati dentro i carri bestiame dei treni, come merce priva di valore e di dignità, sigillati dentro come animali in gabbia, con poca aria e ancor meno cibo e acqua. Chi non morì durante il viaggio, chi sopravvisse alle prime selezioni, alle fucilazioni in massa degli esuberi o dei troppo malandati, chi riuscì a resistere alle lunghe soste nel freddo a corpo nudo e alla malnutrizione, dovette poi confrontarsi una volta giunto a destinazione, con una ancor più terrificante e ingiusta sorte dentro quei campi strutturati in apparenza come piccole ma verosimili città, con infermerie, lavanderie, magazzini, quartieri residenziali, ville per gli ufficiali… esisteva persino una prigione, il che è tutto dire…Ma era solo “l’apparenza”… il resto era sopraffazione e morte. Tutto questo è nel film e molto altro… come la pianificazione della “produttività della distruzione” ordinata da Himmler per unire l’utile al dilettevole e nulla disperdere: utilizzare i corpi, vivi o morti che fossero, sempre e comunque. Sapone dalle ossa, allora; stoffe dai capelli; abatjour ricavate dalla pelle umana, e via discorrendo Il film ce le racconta con le immagini e le parole queste atrocità. Ci mostra l’accumulo “capitalista” degli oggetti e dei resti: montagne di occhiali, di denti, di piccoli utensili di vita quotidiana; di capelli di donna; di orologi…ci fa percepire il senso orrorifico della disperazione dentro gli occhi accusatori degli scheletrici sopravvissuti, ci fa comprendere la vastità della portata di questa tragedia e le atrocità delle prevaricazioni (gli esperimenti scientifici, gli innesti, le infezioni provocate, le castrazioni, il libidinoso sfogo della perversione sessuale persino) semplicemente costringendoci ad osservare gli enormi ammassi accatastati dei cadaveri, i loro resi quasi smembrati, e deformi, a volte. Corpi sfiniti e logorati dai digiuni prolungati e dai lavori forzati…fino alle camere a gas… necessarie anche per far posto ai nuovi arrivati sempre più numerosi e inermi…Era l’economia tedesca a “volerlo”, a “contare” sull’apporto tecnico del sudore di queste vite… ad avere “bisogno” di una mano d’opera che costava meno di niente e rappresentava per questo l’irrinunciabile base del proprio “miracolo economico. Consenzienti e acquiescenti, ma comunque “innocenti”, perché davvero anche su questo fronte il processo di Norimberga fu una semi-farsa nel non voler riconoscere che nessuno poteva veramente far finta di non sapere cosa stava succedendo.. Differenti coinvolgimenti, certo.. ma analogo il risultato. E quando il tragico sogno crollò, quando gli eserciti alleati raggiunsero quei lager mostruosi, quando i bull-dozers cominciarono a spalare quegli informi mucchi di cadaveri, le voci della caparbia difesa ad ogni costo si moltiplicarono brucianti, si imposero prepotenti pretendendo di essere ascoltate e comprese:… “io non sono responsabile” sussurrava il capogruppo; “io non sono responsabile” ribadiva il soldato; “io non sono responsabile” sbraitava l’ufficiale; “io dovevo eseguire gli ordini” si giustificava la guardiana del campo. “Ma allora a chi deve essere attribuita la responsabilità di oltre nove milioni di morti complessivi?” sembra implicitamente domandarsi Alain Resnais con questa “ricognizione” impietosa e sofferta fatta quasi in presa diretta (l’anno era il 1956 e molti documenti, venivano esibiti per la prima volta… c’era l’impatto emotivo con la tragedia… la necessità di “capire”.. forse anche il bisogno – impossibile - di essere un po’ “rassicurati”) semplicemente a un ristretto manipolo di potenti aberrati e aberranti?. La risposta a cui approda, ineludibile e certa, non è così semplice e “consolatoria” però: è infatti quella più drastica di una intuizione che è persino oggettiva, e si connota nella constatazione implicita “che nessuno è innocente”. Colpevoli lo siamo davvero un po’ tutti allora, e nessuno può tirarsi davvero fuori. Infatti, insinua netto e chiaro, suggerisce (e afferma) il regista, questo abominio – e gli accadimenti anche recenti sono qui per confermarlo – non è nefasto patrimonio di una sola epoca o di un solo paese, ma è un retaggio che vive nascosto da qualche parte dentro ognuno di noi, cova sotto la cenere pronto a riemergere (anzi – e adesso lo sappiamo davvero - è già riemerso più volte in forme più o meno striscianti ed evidenti, e tornerà ancora a travolgerci con prepotenza in un futuro anche prossimo, potremmo scommetterci, perché i semi sotterrati hanno già fatto germogliare le prime foglioline che ramificano come gramigna infestante sempre più prepotente e invasiva). Ed è proprio per “metterci in guarda” da questi ritorni che Resnais e i suoi collaboratori, hanno avvertito la necessità di svelare al mondo intero la crudezza dei particolari anche “visivi” di simili orrori, utilizzando le immagini di quegli allucinanti documenti – adesso patrimonio crudele dell’umanità – ma allora tenuti segregati negli archivi della burocrazia militare (i cani, se non sono “costretti”, non si mangiano certo fra loro), senza alcuna mediazione di comodo che attutisse l’impatto, proprio per evitare che quelle “rassicurazioni” che ciascuno credeva di poter pretendere, non diventassero certezze acquisite (o comodi paraventi), perché (per dirla con Brecht) “il mostro è ancora fecondo” ed è indispensabile imparare a difendersi da lui mantenendo sempre attiva la vigilanza (un monito che purtroppo non sempre viene tenuto presente con la necessaria evidenza.. e se ne vedono i risultati ogni giorno).. Diventa quindi fondamentale, più che la necessita “dell’oblio” che pure era forte in quegli anni, quando le ferite erano ancora aperte e sanguinanti, l’importanza primaria del ricordo, unico elemento significativo per tentare di scongiurare le ricadute in agguato. Resnais col il suo straordinario lavoro che ormai “fa parte della coscienza collettiva”, alterna spezzoni recuperati dagli archivi storici di molti paesi (virati in ocra e sanguigna, per aumentarne l’impatto), a sequenze realizzate in un livido technicolor e girate sui luoghi stessi della deportazione, i campi di concentramento ancora conservati a imperitura memoria, per “documentare” il presente (gli alberi, i fiori, i bambini… la vita che continua, insomma) e l’impatto è straordinariamente coinvolgente, aumenta il senso disorientato del disagio, lo sconvolgimento del “come è stato possibile tutto questo?” che è più prepotente del desiderio di considerare concluso quel capitolo tragico per evitare di sentirsi comunque corresponsabili, per lo meno per i peccati di omissione e di reticenza diretta o indiretta. Come nelle opere immediatamente successive, è ancora la dialettica tra memoria e oblio, fra il bisogno di dimenticare e la necessità (prioritaria) di ricordare, il “fil rouge” del discorso proprio perché “il nuovo colpevole” può essere chiunque, e forse - sembra suggerire l’inquietudine che serpeggia fra le immagini instillando il dubbio - non siamo più in grado (e mai profezia fu altrettanto veritiera) “di riconoscere l’assassino che ci è seduto accanto”, come in effetti sta accadendo ogni giorno nell’indifferenza acquiescente di questa nuova apocalisse che martorizza la terra e i suoi abitanti. Vi ritroviamo quindi persino gli embrioni di quell’implicita rinuncia, quel senso di stanchezza (o se vogliamo, di rassegnazione e di disagio spirituale), che si trasformerà nell’anarchico , astratto grido di dolore per una “coincidenza individuale”, fra storia e vita, di Hiroshima, mon amour”, perché anche qui la chiara condanna diventa angoscia esistenziale, e l’orrore finisce con l’esulare dalla precisa impostazione storica per trasformarsi in un moto dell’anima. Che il film fosse terribilmente “impattante” lo sta a dimostrare il fatto che, selezionato per il Festival di Cannes di quell’anno, fu poi “rifiutato” ed escluso dalla competizione proprio per i suoi contenuti “disturbanti”, che anche ad una visione contemporanea restano ugualmente sconvolgenti, perché davvero, anche se ormai siamo abituati alla quotidiana rappresentazione di nefandezze esibite con spericolata incoscienza, le immagini del film di Resnais, con tutta la loro cruda realistica carica di autenticità che si portano dietro, non hanno perso un millimetro della loro forza dirompente. Un film allora che è anche una esperienza di vita, che si proietta brutalmente verso la contemporaneità dei giorni nostri, persino suo malgrado. Una "esplorazione sistematica del male" da meditare e riconsiderare nei suoi molteplici aspetti, non come semplice testimonianza del passato, ma soprattutto quale elemento di riflessione sul nostro procedere giornaliero (perché anche la nostra indifferenza, i nostri silenzi, il nostro non voler sapere, sono comunque complici di più piccole - forse nella portata complessiva -, ma analoghe “devastazioni” verso uomini, razze, etnie “dannate” e diversità comunque espresse). Struggente e doloroso il commento affidato alle parole, meditate e scritte da Jean Cayrol (ex prigioniero proprio di quei campi, oltre che poeta e saggista di valore) che costituiscono un tessuto sonoro delicato e doloroso che ben si innesta sulla musica lieve ed avvolgente del grande Eisler., evitando enfasi e emotrività a buon mercato.

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