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Notte e nebbia

Regia di Alain Resnais vedi scheda film

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La recensione su Notte e nebbia

di giammaz
9 stelle

L.a struttura profonda è data dal meccanismo rigoroso dei contrappunti. Il colore tenue, virato al verde, delle lenti immagini sui resti dei campi abbandonati si alterna al cupo bianco e nero di foto e filmati d’epoca.Il testo di Cayrol, con voce fuori non descrive le immagini, le accompagna lasciando spazi di silenzio per osservare e riflettere.

 

Notte e nebbia di Resnais & Cayrol

 

Les temps obscurs sont toujours là

les villes mendiantes les cerisiers en sang la belle étoile

le douloureux secret des arbres sans un fruit

les fenétres donnant sur des plaies inguérissables

la lune comme un visage blessé à mort

les temps obscurs sont toujours là.[i]

Jean Cayrol

 

. Oggi la produzione cinematografica sulla shoah è imponente e si arricchisce di continuo, anche se non sempre con il rigore storico e filmico di Resnais[iii]; riconsiderarlo oggi ci può aiutare a discernere con occhio critico all’interno di questa cinematografia della memoria.

 

 Jean Cayrol

Nativo di Bordeaux (1910) Cayrol, abbandonati gli studi giuridici, trova impiego come bibliotecario e si dedica alla scrittura e alla poesia dando vita già a sedici anni ad una rivista (Abeilles et Pensée) ispirata a Paul Claudel, poeta innovativo sul piano stilistico che dopo periodo di vicinanza all’anarchismo si era convertito ad un cattolicesimo intransigente.

Con la Seconda Guerra mondiale Jean Cayrol partecipa attivamente alla Resistenza e nel 1942, per una delazione, viene arrestato assieme al fratello Pierre e deportato in Austria a Gusen, sottocampo di Mauthausen. Il duro lavoro coatto nelle officine sotterranee ne minano la salute ma l’aiuto del religioso “Papa” Johan Gruber[iv] gli permise di accedere ad un lavoro meno pesante in infermeria.

A Gusen Cayrol entrò in contatto anche con il sacerdote carmelitano Jacques de Jésus (Lucien Bunel) già direttore del Petit-Collège di Avon, arrestato e deportato per aver nascosto bambini ebrei; alla sua vicenda il regista Louis Malle dedicherà nel 1987 il film Arrivederci ragazzi. Jacques de Jésus muore di sfinimento subito dopo la liberazione e Cayrol dedica un canto funebre al “mio più che fratello R.P. Jacques del Carmelo di Avon”.

Cayrol era un deportato politico NN (Nacht und Nebel) ovvero non registrato e destinato alla eliminazione e alla completa scomparsa, condizione cui erano in particolare destinati gli oppositori nei territori occupati dalla Wehrmacht. Le sue Poesie di notte e nebbia prendono appunto ispirazione da tale condizione, sia pur in modo mediato e indiretto. Egli infatti più che soffermarsi sulla sua esperienza di deportato dà vita in numerosi scritti alla figura del “Lazzaro”, il deportato che ritorna alla vita spaesato in un mondo che aveva dimenticato e non riconosce più. Di se stesso dirà:

Continuavo ad essere in quel vuoto d'aria che il campo di Gusen aveva lasciato, come una sorta di lavagna sulla quale tutto era stato can­cellato. Immaginavo di essere un Lazzaro errante rimasto troppo a lungo a contatto con la pietra.[v]

Subito dopo la liberazione scrive On vous parle, primo volume della trilogia Je vivrai l'amour des autres incentrata sul personaggio alter ego Armand che tornando dal mondo concentrazionario porta con sé il vuoto che lo estranea dal mondo circostante. Nel saggio D’un romanesque conceentrationnaire del ’49 teorizza una letteratura lazzariana diversa dalla testimonianza, diretta o trasfigurata letterariamente, della deportazione, ma incentrata sul dopo, sulla “inarrestabile aberrazione di cui l’uomo dei campi è portatore[vi].

L'opera lazzariana, prima di tutto e più di ogni altra cosa, sarà portata a descrivere in maniera dettagliata la più strana delle solitudini che l'uomo sarà stato in grado di sopportare. Non si tratta di una solitudine dalla quale si possa uscire, o fuggire. Ciascuno dei suoi "fedeli" si avvolgerà in questa solitudine come in un abito della sua taglia che lo preserverà dai crudeli attacchi del mondo esterno. È così vulnerabile che, di questa consuetudine alla solitudine, farà il suo unico mezzo di protezione, la sua unica arma. […]

Il deportato ha vissuto fino all'usura la propria morte, la propria condanna, la propria dannazione, non bisogna dimenticarlo. La solitudine, nella quale si chiude, non esiste forse per risolvere quello spaven­toso interrogativo che lo lascia talvolta insensibile ai problemi della vita quotidiana e familiare? Nel campo ha esaurito tutte le possibilità di morire, tutti i modi di entrare in agonia e, una volta tornato, ha realizzato la straordinaria libertà che la morte gli ha lasciato, l'indipendenza che conserva nei confronti della propria fine.[vii]

Così commenta Boris Pahor:

Per Cayrol la figura del superstite, dell'ex depor­tato, s'identifica con quella del Lazzaro. Questa concezione del sopravvissuto porta inevitabilmen­te Cayrol a prendere le distanze da Primo Levi, per il quale soltanto i morti, coloro che venivano chiamati i musulmani, i sommersi, solo loro erano testimoni integrali, mentre i sopravvissuti non sa­rebbero mai potuti esserlo fino in fondo, proprio in quanto si sono salvati, sono cioè ritornati e dunque non hanno visto la morte in faccia. Per Cayrol non è così. La figura del Lazzaro mette in discussione proprio questa schematica divisione che Levi pone tra sommersi e salvati, ridefinendo e complicando la figura dell'ex deportato come colui che, una vol­ta passato attraverso la morte, ritorna alla vita. Per Cayrol, infatti, anche il superstite è un morto. Un morto che resuscita, al pari della figura biblica di Lazzaro. I salvati di Cayrol sono tutti dei lazzari. Dei risorti, nuova specie umana ritornata alla vita dopo aver vissuto l'esperienza assoluta di annulla­mento di sé nel campo. Quelli che ritornano dai campi non sono dunque dei sopravvissuti, ma, più propriamente, dei risorti. Non è vero che, come ritiene Levi, soltanto i morti, i musulmani hanno «visto la Gorgone» e hanno «toccato il fondo», in quanto vivere quell'esperienza, vivere in un campo di concentramento significava di per sé l'aver toc­cato il fondo.[viii]

Nella sua attività letteraria successiva Cayrol produrrà una vasta opera sia in campo poetico, che narrativo e saggistico con una poetica d’avanguardia in cui molti vi hanno letto l’anticipazione del Nouveau roman. Dopo l’esperienza di Notte e nebbia proseguiràanche quale sceneggiatore cinematografico sia con Resnais (Muriel o il tempo di un ritorno) sia con Claude Durand[ix]. Attivo presso le Editions du Seuil di Parigi, di cui diviene responsabile editoriale, si caratterizzerà per la scoperta e valorizzazione di nuovi talenti, scegliendo comunque una vita lontana dai riflettori anche dopo la sua elezione all’Académie Goncourt dal 1973 al 1995. Muore a 95 anni nella sua città natale.

 

Genesi e realizzazione del film

 

Nacht und Nebel, niemand gleich"

("Notte e Nebbia, (non c'è) più nessuno")

Richard Wagner, L'oro del Reno

 

La direttiva di Hitler del 7 dicembre 1941, successiva all’entrata in guerra da parte degli Stati Uniti, stabiliva che gli oppositori politici, sia in Germania che nei paesi occupati dal Reich, se non condannati a morte immediatamente, dovevano esser deportati e (alla lettera) “fatti sparire nella notte e nella nebbia”.

Nel decennale della fine della guerra il Comité d'Histoire de la Deuxième Guerre Mondiale diretto da Henri Michel e Olga Wormser[x], commissionarono alla Argos Film di Parigi un film sulla deportazione; il produttore della Argos, Anatole Dauman ebreo di origine polacca,si rivolse a Alain Resnais allora conosciuto soprattutto quale documentarista.

 Resnais ricostruisce lui stesso, in una intervista la genesi del film e le perplessità iniziali sia sue che di Jean Cayrol da lui interpellato[xi].

Una sera mi ha chiamato Anatole Dauman chiedendomi di fare un film suoi campi di concentramento. Ho rifiutato perché pensavo dovesse farlo qualcuno che fosse stato deportato davvero. Sono trascorsi circa quindici giorni. Dopodiché, convinto da un amico comune, Frédéric de Towarnicki, è ritornato da me. Ho accettato di incontrarlo per spiegargli perché non volevo fare il film. Non sembrava convinto delle mie ragioni.

Era commissionato da Comitato di Storia della Seconda Guerra Mondiale diretto da Henri Michel e Olga Wormser. Inoltre avevo incontrato lo scrittore Jean Cayrol, amico di Chris Marker; alloggiava all’Hotel della Casa editrice Seuil. Lo incontravo spesso sulle scale e un giorno gli ho esposto il problema. Gli ho detto: “Lei che ha vissuto sulla sua pelle la deportazione, se accetta di scrivere i testi, magari io posso ripensarci e accettare”.

L’accordo con Cayrol, abbastanza riluttante e timoroso di riaprire ricordi dolorosi, era che avrebbe scritto il testo dopo le riprese. Nel frattempo al progetto era stato reclutato anche il compositore austriaco Hanns Eisler che avrebbe scritto la musica per il film.

A quel punto eravamo tutti d’accordo e abbiamo cominciato, come si fa di solito, nonostante i timori.

Mi sono documentato accuratamente grazie agli archivi della Seconda Guerra Mondiale e alle testimonianze raccolte da Olga Wormser e Henri Michel. Ho letto molti libri e in particolare quello di Robert Antelme (La specie umana). Ne finivo uno e ne scoprivo un altro, poi un altro ancora. Ne ho letto uno di David Rousset, si intitolava mi pare “Le pitre ne rit pas” (Il pagliaccio non ride); riprendeva la corrispondenza aberrante tra i dirigenti dei campi di concentramento e le industrie chimiche che facevano esperimenti sui deportati. Queste si lamentavano di ricevere cavie in cattivo stato. Ho letto moltissimo e dopo um mese, forse due mesi, ho presentato a Dauman un testo di circa 15 pagine per proporre il mio progetto del film. [Intervista citata]

 

Riprese e montaggio

Di fronte ad un budget limitato, alla difficoltà di ottenere i permessi, ai costi per gli spostamenti della troupe la scelta di Resnais fu quella di basarsi il più possibile su filmati di archivio. Archivi polacchi e olandesi in particolare, visionando una gran mole di pellicole ma riproducendone lo stretto necessario.

Non potevamo riuscirci in tre mesi, occorrevano dieci anni per ottenere tutti i contatti necessari, ma soprattutto servivano i soldi. Anatole Dauman, Samy Halfon e Lifchitz, i tre soci della produzione Argos film, non li avevano ed era chiaro che avremmo lavorato in certe condizioni e con un budget molto ridotto.  (…)

Avevamo tutti i cinegiornali francesi e gli archivi di quelli polacchi. Li ho visti sul posto e ho cercato di stampare il meno possibile per non spendere troppo. I polacchi ci hanno aiutato molto e il direttore di produzione Edouard Muszka si è impegnato molto per questo film perché tutto andasse per il verso giusto. Abbiamo provato ad accedere agli archivi inglesi, ma non ci siamo riusciti. Siamo andati ad Amsterdam e abbiamo trovato dei documenti 16 millimetri: non descrivevano atti di violenza o soprusi ma mostravano i deportati che venivano messi in posti normali a fare dei lavoretti finché non arrivasse il treno. Poi li facevano salire a bordo e l’importante era mantenere l’ordine. Se i deportati si fossero spaventati, ci sarebbe stata troppa confusione. Mi viene in mente una inquadratura in cui c’è un ufficiale che va avanti e indietro sulla banchina del treno, intorno c’è calma piatta. [Intervista citata]

In questo modo il materiale d’archivio, in bianco e nero, avrebbe costituito la maggior parte del filmato. Si trattava di realizzare le riprese.

Non se ne parlava proprio di viaggi all’estero, siamo andati a visitare un campo nella Francia dell’est, a Struthof. E lì mi è venuta un’idea… Eravamo su una collina che dominava il campo, mi sono avvicinato ad Anatole e gli ho detto: “Ho un’idea che forse le sembrerà pazzesca e che vi costerà parecchi soldi, ma voglio farlo sia a colori che in bianco e nero.”

Mi ha risposto: “Dovremo fare tutto su pellicola colorata e ci verrà a costare molto di più, ma perché no?”

Avviene così la scelta stilistica principale di Resnais: il duro bianco e nero per il passato, un tenue colore per il presente nei campi abbandonati e in gran parte ricoperti dall’erba nel frattempo ricresciuta. Si rattava ora di operare il montaggio.

Nemmeno noi eravamo del tutto convinti di ciò che facevamo; mettere le inquadrature una dietro l’altra e spostarle per cercare un effetto piuttosto che un altro, ci faceva in qualche modo sentire in colpa, ma ci costringeva anche a riflettere sulla condizione umana. Quindi … abbiamo lavorato con un costante senso di vertigine. Ma non voglio sembrare troppo solenne. Ciò che ci spingeva a continuare erano pensieri come: “Non sarà un monumento ai morti!”. Non volevo che poi si dicesse: “Appartiene al passato, non succederà mai più.” Sebbene sia un film girato interamente su documenti, è evidente il riferimento costante al futuro.

 Ero così arrivato al primo montaggio e durava circa quaranta minuti e lo feci vedere a Cayrol come promesso. Non l’avevo mai disturbato né durante le riprese né durante il montaggio. [Intervista citata]

Questo primo montaggio, realizzato dal regista insieme a Chris Marker, venne presentato a Cayrol che di fronte a quelle scene si sentì male e preferì scrivere il testo senza lavorare in sala di proiezione e fornendo un testo successivamente. Quando Cayrol presentò il testo, che riprendeva molto della sua esperienza e della precedente produzione poetica, ci si rese conto che quella versione, pur letterariamente di alto livello, mal si adattava con l’alternanza delle immagini. Marker lo riscrisse cadenzandolo in sincronia col filmato. Cayrol ha poi scritto la terza versione, quella definitiva, questa volta in sala di montaggio adattando il testo scena per scena. Come ha poi affermato Resnais: L’impianto, la cadenza è quello di Marker, “ma le parole e i pensieri sono quelli di Cayrol”.

 

Struttura e poetica

La struttura è semplice: le immagini scorrono articolandosi in cinque fasi:

  1. Oggi. Un paesaggio tranquillo.
  2. 1933.La macchina si mette in moto. Costruzione dei campi e deportazione.
  3. Un altro pianeta. Vita nei campi, rituali, gerarchia e lavoro (la sezione più lunga).
  4. 1942. L’annientamento produttivo. Le bocche d’areazione non trattengono il grido.
  5. 1945. Si aprono i campi. Chi e dove sono i responsabili?

La scansione in cinque parti potrebbe sembrare un’ovvia modalità didattica che nel breve tempo di nemmeno 35 minuti “riassume” ciò che richiederebbe ore e ore di pellicola. Ma la struttura profonda, la sua poetica, non è tanto data dalla successione dei temi quanto dal meccanismo rigoroso dei contrappunti. Il colore tenue, virato al verde, delle immagini girate con lento sguardo su quanto restava dei campi abbandonati si alterna al cupo bianco e nero dove foto e brani di filmati d’epoca si succedono con ritmi spezzati. Il testo di Cayrol – recitato con voce fuori campo all’attore Michel Bouquet – non prevarica le immagini e tanto meno le descrive, ma le accompagna con una rigorosa distinzione fra tempo passato declinato all’imperfetto (b/n) e quello al presente (colore) lasciandoci spazi di silenzio per osservare e riflettere.

Analogamente la musica di Hanns Eisler si alterna con precisione fra crescendo e diminuendo in contrappunto fra il passato e il presente laddove gli spazi vuoti e abbandonati dell’oggi, privi di persone e di volti, inevitabilmente ci fanno immaginare chi li ha drammaticamente calpestati e ci fa interrogare se quegli spazi, o altri simili, potranno ancora accogliere altra umanità deportata.

Mentre la telecamera scorre sulle rovine di un campo abbandonato – non importa quale, li rappresenta tutti – la sequenza finale è accompagnata da queste parole:

La guerra dorme, un occhio sempre aperto.

L'erba fedele è spuntata di nuovo sull’Appellplatz, intorno ai block.

Un borgo abbandonato, ancora minaccioso.

Il forno crematorio è fuori uso. I piani nazisti sono superati.

Nove milioni di morti oscurano questo paesaggio.

Chi di noi vigila da questo strano osservatorio, per avvertirci dell'arrivo dei nuovi aguzzini? Hanno davvero un volto diverso dal nostro?

Da qualche parte, in mezzo a noi, ci sono ancora kapò scampati, capi riabilitati, delatori sconosciuti.

Ci siamo noi che guardiamo queste rovine, since­ramente convinti che il vecchio mostro concentrazionario sia morto sotto le macerie; noi che facciamo finta di tornare a sperare davanti a un'immagine che si allontana, convinti che si possa guarire dalla peste concentrazionaria; noi che facciamo finta di credere che tutto questo appartenga a una sola epoca e a un solo paese, e non pensiamo a guardarci intorno e non sentiamo il grido senza fine.

 

Commenti, ripercussioni e censure

A dieci anni dalla fine della guerra il tema della deportazione e dello sterminio era ancora un tema rimosso dalla memoria collettiva sia in Francia che nel resto dell’Europa. Di questo Resnais e i produttori della Argos erano ben consapevoli. Nelle sale cinematografiche niente era stato ancora proiettato. Di qui la scelta di un rigore che nulla voleva concedere alla spettacolizzazione o all’emotività, in un costante richiamo tra passato documentato e un presente di campi abbandonati e vuoti che portino a riflettere sul vuoto di memoria. Cautela anche testimoniata da una scelta che oggi parrebbe incomprensibile, quella di non nominare nei titoli l’autore della voce fuori campo: si temeva che nominare il noto attore Michel Bouquet avrebbe potuto confondere lo spettatore sul carattere di documento del filmato.

Eppure questo rigore e queste preoccupazioni non bastarono ad evitare la censura. La apposita commissione francese nel dicembre 1955 interviene contestando la violenza del film e la presenza di un guardiano francese nel campo di Pithiviers riconoscibile dal noto képi. Se la prima contestazione dei censori viene superata la seconda, che mette involontariamente in luce oltre alle responsabilità tedesche quelle del collaborazionismo francese, non risulta superabile. I produttori e Resnais[xii] pur di dar via alla distribuzione del mediometraggio accettano di mascherarla coprendo con una sorte di trave il dettaglio del copricapo.

Ma i problemi non sono finiti. Quattro mesi dopo Nuit et brouillard viene selezionato dalla giuria di Cannes nella sezione documentari ma, dopo un intervento dell’Ambasciata di Bonn, la Segreteria di Stato dell’Industria e commercio in accordo con il Ministero degli esteri impone la sostituzione del film con altra opera. Scoppia lo scandalo, Cayrol denuncia su Le Monde “una Francia che rifiuta la verità” e caustico Resnais commenta “Ignoravo che al festival il governo nazista avesse una sua rappresentanza”. Le associazioni di ex deportati si mobilitano per andare a manifestare a Cannes. Alla fine il compromesso è che l’opera venga proiettata fuori concorso in una sezione parallela.

Il film dopo Cannes incominciò a girare anche se inizialmente con qualche difficoltà: i documentari brevi venivano di solito proiettati in sala abbinati ad un lungometraggio. Ma difficile era trovare un abbinamento per cui dapprima girò nei Cineforum. Ma la notorietà, facilitata anche dallo scandalo di Cannes, lo fece acquistare da altri paesi e, per prima, fu proprio la Germania occidentale e poi quella orientale e il film trovò poi spazio nelle sale anche in Francia. Imprevedibilmente la società di produzione ne ebbe un ricavo decisamente superiore alle spese e Resnais acquisì la notorietà che poi gli permise di realizzare le sue opere più note a partire da Hiroshima, mon amour (1959).

Nel 1997, in occasione della versione in DVD Resnais riuscì a recuperare e reinserire l’immagine originale “col Kèpi” per cui oggi è possibile visionare il mediometraggio in edizione restaurata sia in DVD che su YouTube:

  • Versione in francese: [qui]     
  • Versione in italiano: [qui]   

 Il commento di Cayrol

Abbiamo concepito "Notte e nebbia" come un campanello d'allarme.

Notte e nebbia non è soltanto un film di ricordi, ma anche lo specchio di una grande inquietudine. Abbiamo voluto anzitutto - evidente­mente - far conoscere, o meglio "por­tare a conoscenza del pubblico", la verità sui campi di concentramento nazisti, che furono uno dei volti del deli­rio razzista più virulento che mai nella nostra epoca.

Di un'esperienza incomprensibile, inco­municabile, irragionevole, abbiamo scelto le immagini più significative che permettessero, entro i limiti di un cortometraggio, di far partecipare a questa enorme carneficina i vivi di oggi, anche coloro che non hanno mai tentato (magari per l’età) di comprendere sino a qual punto abbiano potuto spingersi degli uomini che odiano la libertà e disprezzano gli altri.

Questo film non è un reliquiario cimiteriale, "un'avventura repentinamente conge­lata", come scriveva mio fratello Pierre nel momento della sua morte nel campo di Oranienburg, un monumento eretto alla memoria disgregata dei nostri morti. È soprattutto la testimonianza vivente, incredibile, degli esiti estremi dell'oppressio­ne e della forza messi al servizio di un sistema che non ebbe rispetto per i diritti ele­mentari del singolo essere umano, nella sua originalità e nelle sue peculiarità. Abbiamo portato alla luce del sole ciò che si trovava solo negli archivi o nel cuore degli inguaribili sopravvissuti, un insieme di immagini che si raddoppiano, si molti­plicano all'infinito nel sangue, nelle urla, nel pus. Sapevamo benissimo che avrem­mo potuto soltanto sfiorare la realtà dei campi di concentramento: neppure un film di parecchie ore sarebbe bastato per dire tutto quel che c'era da dire. Come descri­vere quei "principati dell'assassinio" nei quali la sola ribellione possibile era quella di morire?

Nel cielo indifferente di queste secche immagini si aggirano minacciosi i nembi sem­pre mutevoli dell'eterno razzismo. Essi vagano qua e là finendo per deflagrare in qualche luogo piombando addosso a coloro che restano in piedi.

Il ricordo permane soltanto se illuminato dal presente. Se i forni crematori oggi non sono altro che scheletri insignificanti, se il silenzio è calato come un sudario sui ter­reni mangiati dall'erba dei vecchi campi di sterminio, non dimentichiamo che il nostro stesso paese non è esente dallo scandalo razzista. Ed è perciò che Notte e nebbia diviene non soltanto un esempio sul quale meditare, ma un richiamo, un "campa­nello d'allarme" contro tutte le notti e tutte le nebbie che calano su una terra che pure era nata nel sole e per la pace.

Jean Cayrol, in "Les Lettres francaises", n.606, 15 febbraio 1956.

 

[i] I tempi bui non sono passati / le città mendiche i ciliegi insanguinati il bel firmamento / il segreto doloroso degli alberi infruttiferi / le finestre che danno su piaghe inguaribili / la luna come un viso ferito a morte / i tempi bui non sono passati. (Cœur percé d’un flèche / Cuore trafitto da un dardo, in Jean Cayrol, Notte e nebbia. Seguito da Poesie di notte e nebbia, Nonostante edizioni, Trieste 2014, p. 68-71).

[ii] Notte nebbia cit. Oltre alla sceneggiatura del film e alle poesie il libro riporta una postfazione di Boris Pahor, l’autore di Necropoli.

[iii] Nuit et brouillard è di fatto il primo documentario destinato al pubblico sul tema della deportazione e dei campi di concentramento. Prima di questo si può ricordare L’ultima tappadella polacca Wanda Jakubowska del 1948 ma che, pur girato ad Auschwitz con sopravvissuti ai campi, non è propriamente un documentario.

[iv] Il sacerdote Johann Gruber arrestato dalla Gestapo nel 1938 e internato a Gusen diede vita ad una vera e propria attività clandestina di mutuo soccorso all’interno del campo coinvolgendo e aiutando deportati indipendentemente dal credo religioso. Scoperto e torturato venne assassinato il 7 aprile 1944.

[v] Ilétait une fois Jean Cayrol, Seuil, Paris 1982, pp. 102-103. Citato da Boris Pahor nella postfazione.

[vi] Marina Galletti, “Dalla sopravvivenza alla vita, ovvero da Lazzaro a Ulisse”, in Jean Cayrol, Lazzaro tra noi. Seguito da Testimonianza e letteratura, Nonostante edizioni, Trieste 2016, p. 131.

[vii] Lazzaro tra noi cit., p. 73 e 75.

[viii] Notte e nebbia cit., p. 179-180.

[ix] Durand, oltre che noto editore e traduttore è stato anche sceneggiatore, montatore e regista di film e documentari.

[x] Nel 1954 i due storici avevano pubblicato una raccolta di testimonianze sui campi di concentramento: La tragédie de la deportation, Hachette, Parigi.

[xi] Intervista radiofonica condotta da André Heinrich e Nicole Vuillaume per France Culture e riportata negli extra del DVD (ed. RHV 2007).

[xii] Resnais ha più volte sottolineato come quella breve immagine non era stata scelta per quel motivo e che, se non ci fosse stato l’intervento censorio, probabilmente nessuno vi avrebbe fatto caso.

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