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Estasi di un delitto

Regia di Luis Buñuel vedi scheda film

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La recensione su Estasi di un delitto

di EightAndHalf
8 stelle

L’impulso che cresce sotto la scorza della nostra maschera sociale è solo per convenzioni sociali una colpa. Questo è quello che ci ripetono letterati e filosofi fin da due secoli, chi più chi meno consapevole, senza ricercare la provocazione, che l’istinto – sovente brutale – dell’uomo è dopotutto la sua vera natura, il suo motore inconscio assolutamente veritiero. Finché avremo sempre una finzione da bruciare, da distruggere, sapremo sempre come bilanciare e soffocare questa spinta dell’inconscio, per farci accettare dal mondo e da chi ci circonda. Senza dimenticarsi, ovviamente, che tutti hanno un inconscio e una propria spinta brutale.

Per cui non stupisca se Estasi di un delitto - si può davvero affermare -  non dica davvero cose nuove, ma rielabori con arguzia eccelsa una tematica che, quando fu realizzato, era già sui libri di storia. Il vero elemento che rende il film di Bunuel un piccolo grande capolavoro è invece il gesto irriverente della sua macchina da presa e la scelta ponderata e attenta di personaggi e caratteri particolari, tali da rimanere, il più delle volte, nei toni di una satira graffiante e disincantata, del tutto vicina alla fantocciata (pirandelliana) delle norme e delle convenzioni borghesi. Certo, Bunuel arriverà a conclusioni anche più ambigue e diseguali (e proprio per questo, ancor più splendide), in El Angel Exterminador (che pure realizzerà di lì a poco) e in Le discret charme de la bourgeoisie, mostrando come il labirinto ( così detto proprio a partire da queste opere) bunueliano sia applicabile non solo alla schematica ed evidente divisione di maschera e istinto vitale (che poi è anche mortuario), ma anche ai semplici atti umani, borghesi o meno, assolutamente normali, mostrati nella loro immanente assurdità. È come se in Ensayo de un crimen ci fosse ancora la volontà di dimostrare l’assurdo dall’interno: lo stile prettamente formale (non tematico né tonale) sembra ancora adeguarsi proprio a quelle convenzioni sociali che sottopelle destruttura e sconsacra definitivamente, dimostrando invece vette di ardore registico e di impulsivo virtuosismo proprio in presenza di quelle sequenze che fanno più capo proprio alle pulsioni vitali di Alessandro (Archibaldo in originale) de la Cruz, un borghese assetato di sangue (più che altro femminile) a causa di quello che normalmente avrebbe potuto definirsi  un  trauma infantile e che invece, nel caso suddetto, diventa l’apertura verso un inconscio bestiale.

 

Alessandro è praticamente un uomo castrato, incapace di provare reali impulsi sessuali se non associandoli all’idea morbosa e accattivante di uccidere e di avere il potere (di vita e di morte, chiaramente) su qualcun’altro. Il suo istinto sovviene proprio nel momento in cui egli adocchia una possibile vittima e in essa intravede la possibilità di soddisfare la propria mania, per poi sperare di finire nell’estasi che aveva effettivamente provato da infante. Ma qui già si delinea la prima ambiguità, che Bunuel non tarda ad esaltare: l’impulso vitale di Alessandro, che poi è un impulso omicida ed altamente eversivo, nasce non da un vero episodio, esperito per quello che è nella sua forma più vera, ma per un’illusione che fa il paio proprio con la vitalità più profonda di un essere umano: la fantasia di un bambino. Ma che bambino? Un bambino viziato, coccolato, parzialmente rimproverato solo da una governante che, coinvolta in una sparatoria solo sporgendosi da una finestra durante una rivolta (e da qui anche un occhio al Caos/Caso della Storia), finisce uccisa, proprio mentre il bambino osserva estasiato il suono di un carillon che, secondo la favola inventata al momento proprio dalla governante, aveva il potere di fare in modo che morissero i nemici di colui che lo possedeva o semplicemente lo osservava. Il piccolo Alessandro si convince proprio di aver ucciso la governante, e prova un amplesso ante litteram (parlando di un bambino immaturo) che lo getta nel baratro della mania. Una mania fasulla, eppure certo più vicina alle spinte e agli impulsi vitali più di quanto lo sia la necessità, espressa dal personaggio di Carlotta, di sposarsi secondo le convenienze e i buoni partiti. Anche se Bunuel è certo un cantore dell’istinto (così come lo è il Cinema, per come lui lo intendeva), qui la fissazione ossessiva del protagonista è generata proprio da una finzione, e causata indirettamente (se vogliamo) proprio da quell’ambiente sozzo ma esteriormente elegante che è una casa aristocratica, una famiglia borghese, una vita da nobile.

 

Bunuel non tarda infatti a mostrare come molti dei componenti del ceto borghese nutrano sotto le loro vesti, i loro gioielli femminili e i loro cappelli di gentiluomini, un’impulsività carnale tutt’altro che in linea con le convenzioni sociali. Basta pensare al personaggio di Patricia, alla ricerca di un amante con cui tradire il compagno, o anche al personaggio di Lavinia, che si diletta a far intestardire un vecchietto con cui sta per sposarsi facendosi spesso vedere da lui mentre è insieme ad altri uomini e lanciandosi, nella sua prima apparizione, proprio nel ricordo di un momento della sua infanzia che il vecchietto – non casualmente, nello schema bunueliano - stronca sul nascere, riproponendo concretamente l’azione di castrazione e soffocamento che elaborano le ipocrisie borghesi per sedare le spinte istintive più “abbiette”. L’elemento in questo senso più eversivo, ma anche straordinariamente coerente, è la volontà di Bunuel di non prendere una posizione definita. Questo non dà adito a sperimentazioni realistiche, intenzionate a mettere in scena la realtà così com’è, ma offre l’occasione di vedere la realtà dagli occhi di Alessandro, così da porre fin da subito il dilemma nello spettatore borghese (o nello spettatore qualunque) che non riesce davvero a non provare una sottile ansia nel vedersi di fronte un protagonista “malato”. Bunuel non si azzarderebbe mai a dire che è giusto uccidere o lasciarsi andare agli impulsi, ma quello che vuole far presente, in questo suo cinema onirico splendidamente omogeneo e uniforme nonostante la constatazione dell’incredibile variabilità della mente umana, è che quella spinta così sordida ma anche così naturale all’uccidere è, in fondo, la parte vera di noi stessi, o quantomeno la parte più vera, certo più vera di quella offerta dalla società, ma anche distorta e mal direzionata a causa di quella macabra e morbosa finzione con cui è entrato in contatto da piccolo. Lungi, poi, dal regista spagnolo pensare di adeguarsi alle teorie psicanalitiche, il suo sguardo non è scientifico, entomologico, ma a suo modo passionale, vibrante, contraddittorio, frammentato così come lo è il suo protagonista. Momenti di maggiore passionalità e ben riconoscibile enfasi stanno più nel periodo francese, con Belle de jour, Le discret charme… e Le fantome de la liberté, in cui si tirerà anche formalmente via dalle dinamiche del cinema tradizionale e mostrerà, con una vena satirica comunque presente più in questo Ensayo de un crimen che nel precedente El, l’assurdo e l’abbietto ricreato e formalizzato proprio dalla società occidentale. Non ci sarà insomma adesione alle passioni e alle segrete tendenze dei suoi protagonisti (da qui l’apparente freddezza di Belle de jour), non ci sarà la vicinanza a suo modo quasi maniacale (coerentemente) alla gelosia del Francisco di El o la disomogeneità ricercata e surrealista di Un Chien Andalou, ma ci sarà la derisione esteriore (ma mai sotto uno sguardo snob e superiore) dei vizi borghesi e del rapporto fra questi stessi vizi e le fantocciate chiamate virtù, cosicché il nichilismo bunueliano andrà certamente crescendo e non avrà i benché minimi freni. Già questo processo è in formazione in Ensayo de un crimen, in cui si entra nella mania di Alessandro ma non la si insegue dall’interno: la si osserva invece dall’esterno. Tanto che il già citato labirinto bunueliano qui è presente e si applica non ad azioni normali (fare una cena, uscire da una casa), ma proprio all’esternazione di quell’istinto e di quella ossessione: Alessandro non riesce a portare a termine i suoi piani, forse perché borghese, forse perché quella mania nasce da una finzione, forse per il grande pentolone caotico e casuale in cui tutta la razza umana è irrisoriamente immersa. E quindi già da questo piccolo grande film avvertiamo le radici di un nichilismo eversivo e davvero emblematico che sarà motore di tutto il cinema di Luis Bunuel a partire da Viridiana, con rare eccezioni più immature anche prima.

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