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Ieri, oggi, domani

Regia di Vittorio De Sica vedi scheda film

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La recensione su Ieri, oggi, domani

di LorCio
7 stelle

Cosa rappresenta, oggi, un film come Ieri, oggi, domani? Come si può cercare di spiegare, oggi, la motivazione del conferimento di un premio Oscar ad un film del genere? Proviamoci. Ieri, oggi, domani è un classico. Potrebbe sembrare una definizione banale, eppure ha una potenziale argomentazione abbastanza forte: è un classico perché coniuga tradizione ed innovazione con un linguaggio universale e particolare al contempo.

 

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È un classico perché è manifesto di una stagione (la commedia italiana degli anni sessanta) senza essere una commedia all’italiana; è un film di transizione tra la commedia leggera e frivola di cui Vittorio De Sica è  stato campione assoluto nella recitazione e la commedia socio-culturale di Age e Scarpelli e la commedia di costume di Benvenuti e De Bernardi; è una cerniera tra l’Italia di Lamberto Maggiorani a cui rubano la bicicletta e l’Italia di Alberto Sordi che si vende l’occhio; è la carrellata, o se vogliamo la selezione, di tre racconti profondamente e moralmente diversi redatti da tre autori distanti ma che, a loro modo, rappresentano tre vertici del secolo letterario.

 

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Cosa lega questi tre autori? Niente, se non la rappresentazione della donna a cavallo tra quei due momenti della storia patria di cui sopra. La donna italiana, insomma, che non può che essere Sofia Scicolone in arte Sophia Loren, caso raro di self-made-woman nel mondo dello spettacolo italiano che ha saputo utilizzare, al di là della progressiva maturazione artistica e del talento endemico, la propria femminilità in funzione della propria carriera, diventando addirittura icona più che attrice, prodotto da esportazione più che artista pura.

 

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Il film è un classico, soprattutto, perché è sorretto da un’idea produttiva: al di là di De Sica, è un film che appartiene totalmente all’azienda formata dal tandem Carlo Ponti e Sophia Loren, cavalier servente e dominus o dominus e dolce consorte a seconda delle circostanze e delle esigenze. Ponti costruisce il film in funzione della bellezza, del talento e della versatilità della Loren oscarizzata, propone un discorso sull’universalità della figura Loren in quanto ideale di donna capace a tutto (popolana, borghese, puttana; spettinata e sfat, capelli bruni e raccolti, capelli biondi e selvaggi…). Loren si serve del film per dare sfoggio del suo eclettismo recitativo. Inevitabile, come postilla, notare che tanto è vero che la Loren ha rappresentato la svolta definitiva della carriera di Ponti quant’è vero che l’uno è stato il limite dell’altra e viceversa sostanzialmente negli anni successivi a Matrimonio all’italiana.

 

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Ed è un classico perché è l’occasione per il De Sica lontano dalla necessità di un cinema neorealista di ragionare sul concetto di cinema popolare, coniugando il discorso nei tre episodi in modi differenti. Il primo, tratto da una storia vera rielaborata dal genio di Eduardo De Filippo, offre l’opportunità di tornare alle care atmosfere dell’Oro di Napoli, giocando sul genere melodrammatico in salsa comico-grottesca (una sigarettara abusiva che si fa mettere incinta continuamente dal povero marito pur di non andare in carcere), orchestrando con innata grazia il parterre di attori napoletani nati, raggiungendo un equilibrio assoluto nella calibrazione di urla e serenate, masse e singoli, vicoli in discesa e scalinate brulicanti. Un cinema popolare nella sua accezione più genuinamente plebea, evocante le piccole sceneggiate delle produzioni filmiche anni cinquanta e allo stesso tempo desichiano in maniera quasi sublime. Una Loren nel suo habitat naturale sorretta da un sofferto e lamentoso Marcello Mastroianni di sfavillante eclettismo.

 

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Il secondo, che parte da una novella di Alberto Moravia, è generalmente il meno amato, ma tralasciando la debolezza dell’impianto (l’ambigua tresca tra una ricca signora e un povero disgraziato) merita qualche appunto. È sicuramente il più acido e cinico, il più immerso nelle atmosfere del boom anche grazie all’ambientazione nordica, il più critico nei confronti dei costumi borghesi così come concepiti nell’opera di Moravia, tutto basato sul dialogo più che sull’azione quasi alla stregua di uno sketch tipico della commedia all’italiana ad episodi che avrebbe imperversato negli anni successivi. La declinazione del cinema popolare assume qui da una parte i connotati della critica alle meschinità borghesi e dall’altra l’ammirazione estetica dei corpi in campo che procede di pari passo con il disprezzo dei loro comportamenti.

 

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Il terzo, scritto dal fedele Cesare Zavattini, è il più celebre e rappresenta, col successivo Matrimonio all’italiana (che nel corso degli anni sta acquisendo una rilevanza forse insospettabile cinquant’anni fa nel suo discorso di quieta rivoluzione conservatrice dei canoni del cinema popolare), la transizione del cinema popolare all’idea di un cinema pop italiano. Episodio pronto per l’export in virtù della sua ambientazione romana magnificamente oleografica (un esplosivo Giuseppe Rotunno quasi coautore), è la coniugazione della narrativa di Margadonna, già alla base dei Pane e amore (con l’emblematica presenza di Tina Pica all’ultima partecipazione cinematografica), che abita l’appartamento del pretino dubbioso, con il nuovo che avanza rielaborato dal vecchio Zavattini, inquilino dell’appartamento della squillo d’alto bordo Loren.

 

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Storiella buffa, malinconica, spumeggiante, se vogliamo di formazione benché nascosta dalla debordante presenza del corpo meraviglioso di Donna Sophia, è quanto di meglio gli anni sessanta in Italia abbiano offerto nel campo della commedia popolare per il suo equilibrio di evocazioni esotiche (le sensuali note di Abat-jour) e cartoline stereotipate (i terrazzi romani), umili vecchietti benpensanti (Tina Pica e marito) e imbecilli rampolli industriali (il memorabile Rusconi di Mastroianni), grandi momenti erotici (l’iconico spogliarello) ed inattese esigenze cristiane (il fioretto della puttana).

 

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Ieri, oggi, domani è, di primo acchito, un titolo senza senso, se ci si riferisce ai rispettivi episodi che simboleggiano i tre termini. Trova un suo senso proprio nella sua dimensione di classico senza tempo e un suo limite nella rappresentazione di quel preciso momento storico di cambiamento tra “ieri” ed “oggi” irripetibile nel “domani” citato nel titolo. Fa parte di quella razza selvaggia di film ruffiani a cui si vuole bene perché fanno parte, inevitabilmente, della nostra storia del costume, quella razza di film di cui l’autore totale De Sica è stato campione assoluto.

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