Espandi menu
cerca
Città dolente

Regia di Hou Hsiao-hsien vedi scheda film

Recensioni

L'autore

darkglobe

darkglobe

Iscritto dal 24 ottobre 2006 Vai al suo profilo
  • Seguaci 37
  • Post 2
  • Recensioni 113
  • Playlist 7
Mandagli un messaggio
Messaggio inviato!
Messaggio inviato!
chiudi
Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Città dolente

di darkglobe
9 stelle

Un'opera molto impegnativa, con un incedere lento, che riesce a rappresentare con la giusta efficacia gli anni più duri della storia di Taiwan.

Città Dolente nasce da un progetto di Hou Hsiao-hsien di ricostruzione della memoria storica del proprio paese, avviato quando a Taiwan, nel 1987, era stata finalmente abolita la legge marziale che fino ad allora aveva proibito, tra le tante, di trattare qualsiasi argomento attinente all’identità taiwanese, inclusiva dunque del ricordo della violenta repressione del decennio del “Terrore Bianco”, iniziato con l’episodio del 28 Febbraio 1947, quando membri della forza di sicurezza dell’Ufficio del monopolio rubarono ad una anziana venditrice di sigarette di contrabbando i suoi soldi e venne ucciso uno dei passanti accorsi in aiuto.

Il film nello specifico ricostruisce gli anni che vanno dall’agosto del 1945, con la resa del Giappone e la fine dell’occupazione di Taiwan, riconsegnata alla Cina, fino al 1949, anno in cui le truppe nazionaliste cinesi si insediano nel paese per fuggire al regime comunista di Mao, un esodo verso la stessa Taiwan stimato in circa mezzo milione di abitanti.
La ricostruzione avviene tramite la narrazione della storia del microcosmo della famiglia Lin, residente nel piccolo villaggio Keelunng di Taiwan e di come la sua lenta dissoluzione sia specchio del macrocosmo di una storia di “masse sofferenti”, oppressione e tentativi di ribellione di un intero paese. La storia di Taiwan raccontata dunque nei suoi riverberi, quando determina, condiziona e modifica i destini delle persone.
La trama del film, quasi una saga, è complessa, al punto che alcuni elementi sfuggono e le sinossi che si trovano in giro contengono svariati errori o omissioni che lasciano trapelare la difficoltà in cui può incorrere lo spettatore nel seguire una vicenda intricata che supera abbondantemete le due ore.


Il film inizia con la nascita Il 15 Agosto del 1945 di Lin Kang-ming (“Luce”), figlio di Wen-heung (Chen Sown-yung), fratello maggiore della famiglia Lin, mentre la voce dell’imperatore giapponese Hirohito, che fa da contrasto alle urla della partoriente, annuncia alla radio la resa del suo paese dopo i bombardamenti atomici.

Dopo aver considerato attentamente la situazione dentro e fuori dei confini dell’Impero, abbiamo deciso di ricorrere a misure estreme. Sudditi fedeli, abbiamo chiesto al Governo di comunicare agli Stati Uniti, alla Gran Bretagna, alla Cina e all’Unione Sovietica l’accettazione delle clausole previste dalla loro Dichiarazione congiunta. Operare per la sicurezza ed il benessere dei nostri sudditi e per la prosperità e felicità di tutte le nazioni è per noi un obbligo solenne che ci è stato tramandato dai nostri antenati. Abbiamo dichiarato guerra agli Stati Uniti e alla Gran Bretagna solo nell’interesse del Giappone e per garantire stabilità in Asia Orientale. Non avevamo alcuna intenzione di violare la sovranità degli altri né di espandere il nostro teritorio.


La famiglia, che si riunisce per inaugurare un nuovo locale lo stesso giorno intorno al vecchio Lin (Li Tien-lu), nemico giurato del governo giapponese e per questo definito dallo stesso un “bandito”, è composta da altri 3 fratelli: Wen-sun, il più colto, è un ex medico disperso in guerra nelle Filippine e di cui sua moglie pulisce la clinica ogni giorno nella convinzione che sia ancora vivo e che un giorno tornerà a casa; Wen-leung (Jack Kao) combatte a Shangai con i giapponesi; Wen-ching (Tony Leung) è il più saggio ma è diventato sordomuto a causa di una caduta violenta da un albero in giovane età e lavora come stimato ed accurato fotografo.
Al villaggio arriva Hinomi (Hsin Shu-fen), giovane infermiera, per lavorare all’ospedale delle miniere di Kimguishiu. Lei è la sorella di Hinoe (Xin Shufen), docente del posto nonché attento osservatore degli eventi politici, il quale chiede a Wen-leung, suo vecchio amico, di accoglierla.
Sarà la voce di Hinomi, che trascrive gli accadimenti giornalieri su un diario personale, a narrare durante il film i vari punti di snodo delle vicende sue e della famiglia Lin.


Il nuovo governo imposto dalla Cina dimostra in breve i suoi limiti, come raccontano alcuni, divenendo una vera e propria “impresa privata” per l’arricchimento personale di Chen Yi, con una corruzione dilagante, il prezzo del riso salito rapidamente del 52%, il blocco al contrabbando da parte della polizia continentale, la disoccupazione dilagante tra intellettuali e militari, ingaggiati dal precedente regime, ormai a spasso e il controllo “familiare” degli strumenti di giustizia. Da un lato la popolazione giudica inadeguati i nuovi membri cinesi dell’amministrazione pubblica, avulsa dalle tradizioni taiwanesi; dall’altro i nazionalisti cinesi considerano l’intera amministrazione locale come un gruppo di ex-collaborazionisti.
Wen-leung, tornato dalla guerra, viene riportato proprio nell’ospedale di Hinomi in stato confusionale ed in preda a raptus violenti conseguenti agli shock subiti.

Nel frattempo l’agenzia giapponese per i rimpatri comunica che una nave giungerà a Keelung per prelevare i connazionali. Shizuko (Nakamura Ikuyo), figlia di un direttore giapponese anziano ed ormai fuori di testa, consegna e Hinomi, in un tenero incontro, una spada del fratello morto ed un bellissimo Kimono, come segno del legame profondo e pacifico creatosi nonostante la violenza e la brutalità dell’occupazione coloniale. Regala inoltre una pergamena con una storia scritta da suo fratello che la ragazza consegna a sua volta ad Hinoe in presenza di Wen-leung, storia che in qualche modo testimonia il fascino della cultura giapponese sugli intellettuali di Taiwan.


I giapponesi amano osservare gli alberi di ciliegio. Prima durante la fioritura, poi quando sfioriscono. Credono che anche per la vita sia lo stesso. Durante l’Era Meiji una donna si tolse la vita lanciandosi da una cascata.
Non era stanca della vita. Non aveva perso la voglia di vivere.
È solo che non riusciva a sopportare la perdita della propria giovinezza. Una volta persa quella, niente più aveva senso. Perché non fare come i fiori di ciliegio allora, e cadere proprio nel pieno del proprio splendore? Spinti dal vento… Le parole che ha lasciato divennero di ispirazione per tutti i giovani durante l’Era Meiji. Un tempo di idealismo e di spirito eroico.

Hinoe e Wen-leung comunicano tramite foglietti di carta, trasposti sullo schermo come si trattasse di un film muto, soluzione diegetica che ritroveremo in un episodio di Three Times, e tra i due si sviluppa via via un sentimento di forte affetto.

Wen-leung, ripresosi dal trauma, si lega al contrabbando, frequentando personaggi loschi, tra cui Red Monkey. Quest’ultimo a Chiu-fen presenta ad Ah-ga, fratello della compagna di Wen-Heung, la sua donna, Ah-tsun, immischiandolo in una storia di riciclo di denaro giapponese. Red Monkey viene però rapito e ucciso ed il suo denaro scompare. Wen-heung, che ha rilevato la compagnia marittima del padre, rimprovera violentemente Ah-ga quando scopre che con suo fratello Wen-leung ed altri trafficanti sono state usate le navi di famiglia per operazioni di contrabbando, sequestrandone quindi il carico. Nel frattempo Wen-leung riconosce presso l’abitazione del boss con cui è in affari la donna del defunto Red Monkey, finita sotto la protezione di Kim-tsua, malavitoso di Shanghai, pretendendo i soldi del defunto ed arrivando alla rissa.


L’episodio scatena una guerra tra bande, parzialmente risolto dalla signora Ah-kio, che culmina con una denuncia di collaborazionismo contro i fratelli Lin, accusati di aver aiutato i giapponesi a catturare molte persone a Shanghai durante l’occupazione. Wen-heung riesce a scappare mentre Wen-leung viene arrestato dalla polizia nazionalista e, uscito poi dal carcere grazie all’intercessione del fratello maggiore e di suo cognato Ah-ga con i malavitosi di Shanghai, è ormai ridotto in stato vegetativo a seguito delle torture subite nelle carceri cinesi.


La notte del 28 febbraio accade l’episodio che dà inizio alle manifestazioni popolari represse nel sangue e viene temporaneamente reintrodotta la legge marziale, annunciata per radio dal governatore come “misure straordinarie per il controllo dei disordini”. Il giorno che segue Hinoe e Wen-ching vanno a Taipei per sbrigare faccende. Wen-ching ritorna da solo e, sconvolto dagli incidenti, sviene in ospedale.
La legge marziale, annuncia nuovamente il governatore in radio, viene prima tradotta in “misure meno restrittive” e la liberazione dei manifestanti, ma poi reintrodotta “per punire ribelli e traditori”.
Wen-ching, ripresosi, racconta ad Hinomi che il fratello sta bene e l’episodio in cui alcuni soldati nazionalisti lo avevano scambiato per cospiratore a causa del suo mutismo, ma di essere stato poi salvato dallo stesso Hinoe. Quest’ultimo arriva anche lui in paese dopo un paio di giorni, con una gamba spezzata e varie ferite, raccontando degli incidenti e di arresti e uccisioni da parte delle truppe di Yi Chen a Taipei.
Il povero fotografo Wen-ching viene nel seguito arrestato e, come poi racconterà alle mogli delle vittime, chiuso in una cella con altri giovani ribelli, tutti condotti frettolosamente a morte. Fortunatamente, nonostante una sequenza di immagini lasci intendere ben altro, viene rilasciato e, tornando a casa del patriarca Lin, trova Hinomi a cui riferisce tramite la consuetudine dei foglietti che Hinoe si è rifugiato tra le montagne con una banda di guerriglieri.
Wen-heung, sempre più cupo ed irascibile, ormai ha chiuso i suoi affari finiti male dopo le rivolte e si dedica al gioco d’azzardo con Ah-ga. Quest’ultimo riconosce in una sala da gioco uno dei malavitosi colpevoli dell’arresto dell’ormai vegetale Wen-leung e scoppia una rissa in cui lo stesso Ah-ga viene ferito mentre Wen-heung è colpito a morte.


Hinomi e Wen-ching si sposano, dando alla luce un bambino, Ah-chien, ricevendo di notte, tramite una missiva, la notizia che Hinoe e la sua banda sono stati arrestati e uccisi dai militari. Tre giorni dopo che Wen-ching scatta una tenera foto di famiglia con moglie e figlio, viene nuovamente arrestato e, come scrive Hinomi alla nipote Ah-shue, figlia di Wen-heung, non si hanno sue notizie ormai da giorni.
Il patriarca Lin mangia ormai solo in sala da pranzo.


Il film viene girato in presa diretta al fine di accentuarne la spontaneità e la freschezza recitativa degli attori, molti dei quali non professionisti (esattamente come nel neorealismo italiano), altri legati ad una consuetudine con il regista che gli consente di padroneggiare con maggior naturalezza le sue scelte di stile recitativo. La misconoscenza del mandarino da parte di Tony Leung, attore icona di Wong Kar-wai, viene risolta da Hou Hsiao-hsien con la convincente soluzione narrativa del sordomuto.
Hsin Shu-fen aveva partecipato ad altri lavori del regista e qui Hou Hsiao-hsien le affida un ruolo chiave nel film, probabilmente quello meglio riuscito, per rappresentare una ragazza silenziosa ma con una gioia di vita interiore ed una immensa capacità di affrontare la durezza ed il dolore imposti dalle drammatiche vicende dell’epoca, grazie all’affetto provato e ricambiato per Wen-ching ed il figlio. In questo senso sia Hinomi che Shizuko rappresentano l’elemento sognante e un po’ elegiaco delle figure femminili del film, con la loro grazia e raffinata delicatezza, a cui fanno da contrasto le accompagnatrici e le amanti che pullulano nei bar e nelle bettole da gioco.


Altro attore a cui il regista risulta particolarmente legato è l’anziano Li Tien-lu, ex marionettista e cantastorie girovago, che ricompare in almeno altri due film di Hou Hsiao-hsien tra i quali Il maestro burattinaio, altra opera che compone la trilogia su Taiwan insieme a Good Men, Good Women.
Figura più contraddittoria di tutte è quella del fratello maggiore dei Lin, Wen-heung, interpretato da Chen Sown-yung, anch’esso noto attore taiwanese. Personaggio all’apparenza pragmatico ed aggressivo, sguaiato nelle parole e nelle movenze, esterna il suo irrisolto dramma infantile quando, dopo aver coperto accuratamente e con una certa tenerezza l'ultimogenito nel letto, racconta alla compagna dei ripetuti incubi relativi ad un episodio in cui suo padre, per andarsi a giocare i soldi di famiglia, lo aveva legato da piccolo ad un palo del telegrafo lasciandolo solo per ore al freddo. La sua parabola, da guida morale e da gestore dei beni familiari a giocatore attorniato da donne facili, fatto fuori con un colpo di pistola in una bisca, segna l’epilogo di una maledizione familiare iniziata con la morte della madre, a cui lui stesso fa riferimento parlandone con un dottore ed è sicuramente la caduta dell’ultimo baluardo della famiglia Lin, della quale restano beffardamente in vita solo il vecchio patriarca ed il fratello fuori di senno.


In tutto il film domina l'uso di una mdp in piani sequenza fissi o con lievi spostamenti su campi medio-lunghi, quasi a marcare una distanza dai fatti e a rappresentare il percorso dell’occhio umano nell’assistere a quanto accade, con la particolarità di riproporre più volte gli stessi punti di ripresa durante l’evoluzione degli eventi (l’ingresso dell’ospedale per tutti), quasi un ricongiungimento ellittico di quei piani sequenza.
In questa staticità di ripresa, portata alla totale essenzialità ed alla depurazione da elementi inutili, le parole, la composizione delle immagini e la luce sono un residuale ovvero ciò che si collega alla natura contemplativa delle riprese (“cinema della fissità”) nelle quali possa avvenire una “stabilizzazione delle emozioni ed una cattura di ciò che un luogo sprigiona” anche a costo che questa operazione porti ad inquadrature nelle quali si perda la formalizzazione classica del centro focale.
A volte poi, e se ne percepisce nettamente il fine, il non visto predomina sul rappresentato, di cui se ne comprendono durante la visione i risvolti, quasi a marcare fatti e avvenimenti tramite la loro negazione estetica, ma questo senza dubbio pretende che l’attenzione ed il coinvolgimento dello spettatore siano totali.


Tra un evento e l’altro viene ripreso periodicamente e ripetutamente per diversi secondi uno scorcio silenzioso di mare o qualche passo di montagna. Se un Wim Wenders afferma che esiste una netta differenza tra la sua attività di fotografo e quella di cineasta, considerando che un film è una immagine in movimento e come tale ha tutt’altra prospettiva estetica rispetto alla fotografia, con Hou Hsiao-hsien la staticità della rappresentazione paesaggistica è in Città Dolente impressionante e queste riprese sembrerebbero esattamente delle foto o dei bozzetti pittorici se non fosse per qualche impercettibile movimento umano, per lo smuoversi di qualche nuvola, per il lieve ribollire del mare o per una rappresentazione di parti poco a fuoco che costituiscono l’elemento di dinamicità evolutiva all’interno di quello stesso intento pittorico.

Alla sceneggiatura del film contribuisce in maniera predominante la scrittrice Chu Tien-wen, che collabora e collaborerà a molti altri lavori di Hou Hsiao-hsien; ma in questo caso, data la vasta ambizione dell’opera, vi prende parte anche Wu Nienjen. Definita l’idea di base il lavoro di ricostruzione storica e di approvvigionamento di vicende e personaggi, che potessero aiutare a definire l’identità e le sofferenze di un paese martoriato, è enorme e procede dal verbale al documentale, facilitato in quest’ultimo caso dalla fine della legge marziale.
L’intento di recupero della memoria storica è per Hou Hsiao-hsien fondamentale e le sue opere successive ne spiegano in qualche modo il motivo: la raffigurazione disincantata delle nuove generazioni, ipertecnologizzate e concentrate sull’effimero (Millenium Mambo tra i vari) è il segno di una perdita di senso di appartenenza e dell’idea di partecipazione attiva alla vita sociale, conseguenza diretta di un annichilimento identitario perpetrato per anni dalla violenta politica repressiva cinese, della quale questo film rappresenta in qualche modo una inevitabile condanna, unita ad una neppure troppo velata nostalgia per quanto di buono aveva seminato l’occupazione nipponica.


Le composizioni musicali di Naoki Tachikawa fanno da collante tra le varie sequenze e la musica è in generale in relazione diretta con le situazioni rappresentate fino a diventare essa stessa elemento tematico del film, come quando Wen-ching avvia il brano popolare tedesco sul mito di Lorelei, su cui può narrare in forma trascritta a Hinomi aspetti della propria infanzia.

Avevo otto anni […] Caddi da un albero, sbattei la testa e poi mi salì la febbre. Non sapevo di essere diventato sordo finché mio padre non me l’ha scritto, ero troppo piccolo per soffrire.


O ancora, sorprendente a dirsi, quando i carcerati taiwanesi, catturati insieme a Wen-ching, cantano in giapponese come segno di sfida mentre i loro compagni vengono condotti all’esecuzione. O infine quando le canzoni tradizionali taiwanesi introducono e descrivono le usanze locali.
Questa varietà musicale è anche una varietà linguistica, visto che nel film si parla mandarino (i taiwanesi si lamentano, dopo la fine della presenza giapponese, di non conoscerlo affatto), giapponese, taiwanese, cantonese oltre che dialetto di Shanghai (tutto ovviamente appiattito nel doppiaggio italiano su un’unica lingua). Emblematico in questa babele il colloquio in tre lingue quando Wen-heung chiede ai malavitosi di Shanghai una mano per liberare il fratello prima di Capodanno. La frammentazione linguistica è però anche uno strumento narrativo necessario per testimoniare la incomunicabilità che si respira tra occupanti ed occupati.
Altro elemento “sonoro” trainante sono le voci narranti, in primo luogo quella del diario di Hinomi a cui si aggiungono le corrispondenze familiari di Ah-shue, che assumono un aspetto degno di rilievo, trattandosi di voci femminili: scelta di campo ben studiata nella quale si intende identificare la donna come fondamentale elemento di raccordo familiare e di memoria dei tragici eventi.
Aspetto degno di un certo interesse appare la perdita di sincronismo tra voce narrante e le immagini (qui le sperimentazioni di Godard insegnano qualcosa), nel senso che la voce a volte le anticipa e altre le chiosa.

Un'opera in conclusione molto impegnativa, con un incedere lento, che riesce a rappresentare con la giusta efficacia gli anni più duri della storia di Taiwan. La notevole durata e lo stile assolutamente particolare fanno sì che questo film, pur rientrando nella categoria dei capolavori assoluti del cinema, non abbia le caratteristiche per un apprezzamento unanime del pubblico.

Città Dolente riceve nel 1989, tra non poche polemiche, il Leone d'Oro alla Mostra del Cinema di Venezia, avviando di fatto un riconoscimento internazionale sulla “nuova onda” taiwanese. BFI lo annovera tra i migliori 100 film di cinema internazionale.
In Italia viene proiettato in sala solo nel 1994, in Home Video appare unicamente in VHS e ad oggi manca una copia in formato digitale.

Ti è stata utile questa recensione? Utile per Per te?

Commenta

Avatar utente

Per poter commentare occorre aver fatto login.
Se non sei ancora iscritto Registrati