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I migliori anni della nostra vita

Regia di William Wyler vedi scheda film

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La recensione su I migliori anni della nostra vita

di LorCio
10 stelle

Un titolo entrato nel gergo comune anche grazie alla, checché se ne dica, splendida canzone cantata da Renato Zero, che ha un significato denso di speranza eppure contraddittorio: possono essere i migliori anni della nostra vita quelli appena successivi alla fine del secondo conflitto mondiale? Probabilmente sì, perché ogni fine può essere un nuovo inizio. Il film racconta, nel corso di quasi tre, appassionanti ore di romanzo popolare americano, le storie di tre reduci di guerra alle prese con i problemi del reinserimento: il bancario di mezz’età Friedrich March (Oscar) torna in famiglia ma si dà troppo spesso all’alcool e pensa disperatamente a coloro che non ce l’hanno fatta, nonostante la dolce mogliettina Myrna Loy (donne di cui abbiamo perso lo stampino) cerchi di introdurlo di nuovo nella quotidianità della famiglia; l’aitante Dana Andrews perde il posto di lavoro e l’amore della fatua Virginia Mayo; e il mutilato Harold Russell (mutilato delle mani anche nella realtà) non riesce ad accettare il fatto che la famiglia lo tratti da menomato.

 

 

Proprio quest’ultimo filone inserisce il bellissimo film di William Wyler in una specie di neorealismo americano formato mainstreaming, certamente non accostabile ad una corrente precisa né tantomeno folta: Russell è la testimonianza dei sacrifici bellici che l’America ha subito per salvare il mondo e allo stesso tempo è la rappresentazione del dolore e dello strazio dei padri e dei figli della nazione alle prese con l’elaborazione del lutto e con la necessità di voltare pagina. Non è involontario che la scena più commovente (cinicamente si direbbe anche scontatamente) sia quella in cui Russell si spoglia, presentandosi di fronte all’amata senza gli arti, ossia nelle condizioni attuali, le condizioni che vanno accettate senza se e senza ma. Con una perizia che unisce le esigenze autoriali con le voglie di un pubblico sofferente ma desideroso di ricominciare, Wyler si fa assistere da un reparto tecnico efficientissimo che ricrea spazi metropolitani con filologica coerenza e manda le sue attrici a vestirsi con gli abiti dei grandi magazzini in un nome di un realismo tutt’altro che banale e per forza di cose attendibile.

 

 

Il film esprime l’inganno che l’America ha fatto ai suoi soldati: non a caso è denso di rimpianti (specie da parte del personaggio di Andrews), di malinconie, di fermento. Fotografia livida ed intensa ingiustamente non premiata con l’Oscar così come invece furono premiati film, regia, March, Russell, sceneggiatura, musica e montaggio. Per quanto datato, nei suoi limiti, sta agli Stati Uniti come Ladri di biciclette sta all’Italia: gli effetti sono diversi, le cause forse pure (a differenza dell’America, l’Italia vive un tormentatissimo complesso di colpa), ma i sentimenti sono gli stessi.

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