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I racconti di Hoffmann

Regia di Michael Powell, Emeric Pressburger vedi scheda film

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La recensione su I racconti di Hoffmann

di vermeverde
10 stelle

Lo splendore visivo e immaginifico ne fanno probabilmente la migliore versione cinematografica di un'opera lirica.

Il film è la versione cinematografica dell’omonima opera lirica di Jacques Offenbach del 1881, basata su alcuni racconti di Ernst Thomas Amadeus Hoffmann: “L’uomo della sabbia” (Der Sandmann) da “Notturni” del 1815, “Abenteuer in der Silvester nacht” da “Fantasie alla maniera di Jacques Callot” del 1814 e “Rath Krespel” da “I confratelli di Serapione” del 1818. L’opera ha subito nel tempo numerosi rimaneggiamenti, modifiche e tagli e solo dopo lunghe e complesse ricerche sui manoscritti originali è stato possibile pubblicare la versione più vicina alle intenzioni dell’autore (la settima!) nel 2009: ovviamente questa versione non era disponibile all’epoca del film.

L’intreccio del film, con alcune differenze rispetto all’opera, è la narrazione che fa il poeta Hoffmann (il tenore Robert Rounseville) dei suoi amori infelici, resi tali dai diabolici antagonisti, tutti interpretati da un eccellente e mefistofelico Robert Helpmann. Il prologo si svolge a Norimberga e l’amata è Stella (Moira Shearer), qui una ballerina mentre nell’opera è una cantante, e l’antagonista è il consigliere Lindorf. Nel primo racconto, che si svolge a Parigi, l’amata è Olympia (ancora la Shearer), in realtà una bambola meccanica creata da Spallanzani (Leonide Massine) che a Hoffmann appare reale per via degli occhiali magici di Coppelius (Helpmann); nel secondo, a Venezia, Hoffmann è sedotto da Giulietta (Ludmilla Tchérina) amante di Schlemil (Massine) ma soggiogata dal mago Dappertutto (Helpmann), nel terzo, su un isola greca, l’amore del poeta è corrisposto dalla cantante Antonia (Ann Ayars), ma l’intervento del Dottor Miracle (sempre Helpmann) ne provoca la morte.

La storia è pienamente romantica e in trasparenza vi si può leggere un insanabile dissidio fra amore e arte, tematica esplicita nell’ultimo episodio e già affrontata in Scarpette rosse di cui sono presenti 4 protagonisti (Shearer, Tchérina, Helpmann e Massine) e gli scenografi Arthur Lawson e Hein Heckroth (qui non accreditato): di Scarpette rosse, infatti, prosegue ed approfondisce la ricerca di un cinema “totale” in cui tutte le tecniche espressive (teatro, musica, balletto, scenografie pittoriche) concorrono ad una sintesi assolutamente fantastica, a tratti inquietante, del tutto svincolata dai vincoli del realismo e di grande impatto visivo. Molto significativo è l’uso del colore volto a caratterizzare ciascun episodio: giallo il primo, rosso (con il verde a contrasto) il secondo e azzurro e bruno il terzo. La felicità inventiva di Powell e Pressburger, raggiunta tutto sommato con mezzi semplici ma geniali (come la famosa scala disegnata sul pavimento) in cui il set è visto come un palcoscenico, ha il suo culmine nei balletti: non si deve dimenticare che Helpmann e Massine erano grandi ballerini (e anche coreografi) con una carriera di prim’ordine prima che attori, come pure le ballerine Shearer e Tchérina, e che l’orchestra era diretta dal famoso Sir Thomas Beecham. 

La potenza e l’evidenza espressiva del film sono tali che, pur essendo cantato in inglese, preferisco vederlo senza sottotitoli come fosse un film muto con musica trovando comunque la trama perfettamente intellegibile.

Questo capolavoro, nonostante i settant’anni dalla realizzazione, conserva tuttora il suo fascino inquietante ed è una vetta assoluta nella filmografia dei grandi Powell e Pressburger.

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