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Gangster Story

Regia di Arthur Penn vedi scheda film

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La recensione su Gangster Story

di scapigliato
10 stelle

Probabilmente il capostipide della New Hollywood dei '70, che insieme a "La Notte dei Morti Viventi" del '68, e ad "Easy Rider" del '69, scardina le regole del mondo cinematografico da un lato, e rivoluziona il Mito, l'estetica e l'immaginario dall'altro. Basta con i belli e rassicuranti figli della bella e giusta America, è ora dei ribelli, degli arrabbiati, dei dissidenti, magari carini, ma soprattutto sporchi, cattivi, pieni di ombre e quant'altro. Pronti al bene quanto al male, e sembra proprio di leggere la prefazione dell'Arrighi a "La Scapigliatura e il 6 Febbraio" nel tratteggio di personaggi, situazioni e temi. L'occhio fermo e la mano decisa del regista Penn sono una condizione necessaria e favorevole alla riuscita del film. Sa infatti parlare di ribellione senza banalizzarla, come si fa oggi, dove il Ribelle è da copertina, fa tendenza e partecipa ai prgrammi tv smerciando la nobile ribellione di cui crede essere Mito.
L'inizio del film ci dice già dove il film stesso vuole andare. Primi piani di una bellissima Faye Dunaway nervosa, inquieta, e nuda. Oggi vediamo quelle nauseanti e insopportabili carrellate che ci portano dentro alla situazione e ci spiegano dove siamo e chi siamo, ma in quegli anni era molto più importante trovare soluzioni visive diverse, scardinare la ormai accettata forma cinematografica, i suoi contenuti, i suoi divi, il suo bianco e nero. Nel 1967 inziò il cinema più bello della storia, e non me ne vogliano i filo-francesisti o gli orientalisti oltranzisti. Ma non ho più rivisto una concentrazione di capolavori o semi-capolavori, di cui è indiscutibile il gigantesco impatto nell'immaginario e nel cuore della gente. Se ancor oggi, un ragazzo di 26 anni come me, si sente ugualmente trascinato e innamorato di certe pellicole, è perchè tali pellicole conservano oggi la rabbia dei loro tempi. E questo vuol dire solo una cosa: che, a parte la bellezza formale del film in sè, dovuta a registi in stato di grazia, questi film parlano, con passione e impeto trascinante, di grandi spiriti liberi che non accettano lo schifo che le istituzioni e i governi impongono; i compromessi e le convenzioni sociali che mascherano tutto e snaturano ogni cosa; parlano del dissenso proiettandolo on the road, dove spazi aperti e lunghe e interminabili strade sono l'equivalente naturale dell'animo inquieto e fuggiasco dei protagonisti. Anche l'elemento autodistruttivo, sebbene sia discutibile perchè la vita è sacra e non ci piove, aveva in sè quel gene lucidamente ribelle, che spiazzava le idee imperanti, e faceva della cultura dominante un colabrodo. La ricerca della morte, o almeno del rischio che avrebbe poi potuto portare alla morte, era ed è tutt'ora una grande ed evidentissima forma di dissenso. Il dissociato fa paura perchè è libero. E automaticamente viene visto come un criminale, un soggetto pericoloso all'ordine costituito. E poi, questi animi liberi, finiscono per crederci e fanno una brutta fine. Brutta sì, ma migliore di chi scendendo a compromessi muore dentro e molto prima, nonostante biologicamente rimanga in vita a lungo. Ora questo cinema non si fa più, perchè è poco vendibile. Qualche film in giro per il mondo lo vediamo, e lo notiamo subito, ma le regie e l'iconografia sono tutte più smussate. Una volta la rabbia non era solo in bocca ai personaggi del film, ma era visibile nella grammatica stessa del film, nel suo linguaggio e nella sua estetica. Oggi, s'è perso molto. Ci rimangono i grandi volti di allora, e in particolare quel Gene Hackman gigantesco che con Warren Beatty e Faye Dunaway avevano aperto la più bella strada cinematografica della storia. Personaggi incredibili, bellissimi, che con un solo sguardo in camera sapevano dirti con precisione tutto il casino che si sentivano dentro, e tutto l'amore che cercavano pur non trovandolo sempre. Fondamentale il personaggio di Frank Hammer, ovvero l'attore Denver Pyle meglio noto come lo zio Jesse di "Hazzard", un vero e proprio villain quasi metafisico: silenzioso come una tigre, letale come un mamba, e bastardo come uno sciacallo. Un personaggio la cui efficacia sta nel giusto dosaggio della presenza in scena, che fa da contraltare alla gigantesca presenza scenica. Infatti quando è di scena Pyle nel ruolo dello sceriffo Hammer, ci si dimentica del resto della storia e si rimane ammutoliti da quel viso e da quegli occhi spietati che non lasciano speranza alla libertà dei giovani protagonisti.
Menzione a parte per Gene Hackman, un attore "bruttino" che in un altro Cinema, quello bello e patinato della vecchia Hollywood, non avrebbe avuto successo. Ma con "Bonnie & Clyde" (titolo originale del nostro meno felice "Gangster Story", che implica una caratterizzante criminale senza appelli), trova la via di un Cinema anni '70 che lo vedrà poi essere uno dei volti principali di tale Cinema. In compagnia di Al Pacino, Dustin Hoffman, Jack Nicholson e Clint Eastwood, Robert De Niro e Dennis Hopper, ecco che Hackman sforna i ruoli più "altri" della sua carriera immortalando uomini pieni d luci e di ombre, come il suo grande paese, l'America. Il suo personaggio di Buck Barrow sembra fregarsene di tutto e di tutti, ride pure quando sta per morire, ma è solo una fuga, quella eterna che ha dentro di sè, con cui s'allontana il più velocemente possibile dallo schifo di un mondo che non lo rappresenta. Lo strazio della sua morte ci colpisce dritti al cuore, senza però ricattarci moralmente. Quei poliziotti in cerchio che se lo gustano guardandolo morire, sono la più lampante rappresentazione di una violenza legalizzata che si compiace di se stessa. Ma la scena che chiaramente tutti portiamo viva davanti agli occhi è la fine di Bonnie e Clyde. Crivellati dagli uomini di Hammer, hanno solo il tempo di fissarsi negli occhi e fotografare le loro anime e il loro amore per sempre, pur senza toccarsi e senza nemmeno sfiorarsi. Una morte svuotata di retorica, con un montaggio incredibile che ce la butta davanti agli occhi con brutalità, senza quell'enfasi con cui si è soliti vederla rappresentata. Forse perchè la morte è brutale, e non va compiaciuta, e forse nemmeno chiamata sorella. Oggi vediamo gli eroi che muoiono, o muoiono sacrificandosi, in un circo di patetismi e di retorica che mettono solo nausea e falsano la realtà. Forse in quei film che ci mancano tanto, morivano diversamente perchè non erano eroi, ma anti-eroi di cui oggi avremmo veramente più bisogno. L'eroe oggi è buono solo per le copertine, i reality show e la tv dell'apparire che vomita sull'essere.
Come Emilio Praga lo disse in "Preludio", io dico che anche con quel '67 "degli antecristi è l'ora!". Nel senso di ribelli al convenzionale; qui le questioni religiose non c'entrano (seppur in Praga sì). Lunga vita agli anti-eroi, e al Cinema che meglio li rappresenta. E ci rappresenta.

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