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The Blues Brothers

Regia di John Landis vedi scheda film

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La recensione su The Blues Brothers

di Eric Draven
10 stelle

Dan Aykroyd, John Belushi

The Blues Brothers (1980): Dan Aykroyd, John Belushi

 

Ebbene, prima o poi dovevamo andare a parare su The Blues Brothers. Pellicola per la quale il termine capolavoro poco le si addice. Eh già. Perché in questo caso parliamo di qualcosa di decisamente superiore rispetto alla banale definizione generica di capolavoro, siamo dirimpetto al cult planetario per eccellenza, dinanzi a una pellicola che travalica il concetto stesso di Cinema e, nella sua folgorante magnificenza, nella composita istanza d’innumerevoli fattori concomitanti, è ascesa a pellicola irrinunciabile non soltanto per gli appassionati della Settima Arte.

Perché The Blues Brothers non è in verità un film nel senso stretto del termine.

È il manifesto poetico, umoristico, dissacrante di John Landis, l’iconica pellicola con la quale il compianto e indimenticabile John Belushi, prima della sua tragica, prematura morte avvenuta per overdose, è entrato prepotentemente, irriverentemente dritto e di diritto nel cuore e nell’immaginario degli spettatori di ogni generazione.

The Blues Brothers è il film che, oltre a detenere il tuttora imbattuto guinness dei primati per il maggior numero d’incidenti automobilistici contenuti nelle sue due ore e tredici minuti (esiste, come sapete, anche la versione estesa di circa 148 min.), è divenuto una pietra miliare della cinematografia soprattutto perché, nel suo folle, grottesco, irresistibile interno, contiene le pindariche, coloratissime e travolgenti esibizioni canore e i numeri musicali di miti inestinguibili della musica mondiale, i re del gospel e del rhythm and blues James Brown e Aretha Franklin, il principe del soul Ray Charles, le partecipazioni di Cab Calloway, Steve Cropper e chi più ne ha più ne metta, i cammei dei registi Steven Spielberg e Frank Oz, le magiche apparizioni di John Candy e della modella Twiggy. In più la rimpianta Carrie Fisher s’è esibita in un’esilarante interpretazione surreale da applausi a scena aperta.

Ed è il film col quale Dan Aykroyd (autore del soggetto e della sceneggiatura assieme a Landis) e Belushi stesso, riciclando genialmente due loro strepitosi personaggi del Saturday Night Live, hanno fatto sfracelli.

 

Chiariamoci però subito. The Blues Brothers non fu immediatamente un successo. Anzi, tutt’altro. La sua immensa popolarità è esponenzialmente cresciuta solamente col passare del tempo.

Costato infatti 27 milioni di dollari, non incassò affatto bene. Fu un mezzo flop. Fu alquanto snobbato dal pubblico dell’epoca e fu ignorato da ogni premio.

A tutt’oggi addirittura l’aggregatore delle medie recensorie metacritic.com gli assegna soltanto un incomprensibile 60%.

The Blues Brothers, in effetti, dal punto di vista prettamente cinematografico non è propriamente un masterpiece. Anche se, certamente, sull’intrinseco significato di valore cinematografico, viste appunto l’influenza, la portata e la rilevanza seminale generate da questo film pazzescamente epocale, si potrebbe giustamente obiettare immantinente, in maniera imperiosa, sacrosanta e impertinente.

È semplicemente un film irripetibile, fuori da ogni classificazione immaginabile e possibile.

Lo stesso dizionario dei Morandini, da cui estrapoliamo la trama, pur lodandone apertamente gl’inconfutabili pregi, gli assegna solamente tre stellette su una scala da 1 a 5.

 

Per impedire la chiusura della loro vecchia scuola, due fratelli organizzano un concerto. Combinano tanti guai che l’intera polizia di Chicago li insegue con ogni mezzo. Un classico della nuova comicità demenziale, un film di culto per i fan di Belushi.

 

Incredibile!

Anche stavolta allora ha ragione l’altro celeberrimo dizionarista cinefilo Paolo Mereghetti.

Che, come me, invece non ha mai esitato un sol istante a definire The Blues Brothers un’opera smisuratamente fantastica, dandogli il massimo.

Come si possono nutrire infatti dei dubbi in merito?

Un film che inizia seriosissimamente con delle plumbee riprese aeree sulle aree industriali di Chicago avvolte in un cinereo, funebre tramonto scandito in tagli neorealistici, intarsiato nelle mortifere inquadrature d’una fotografia sporca e rugginosa come se ci trovassimo di fronte a Il cacciatore di Michael Cimino (uscito due anni prima) con le sue metalmeccaniche fabbriche e le acciaierie della Pennsylvania, che poi s’addentra nella Joliet Prison come se stessimo guardando Fuga da Alcatraz, dunque all’improvviso, giusto l’infinitesimale attimo d’un impercettibile battito di ciglia, sterza impressionantemente sul demenziale più fine e intelligente con un paio di battute leggendarie e, da lì in poi, non lascia un attimo di tregua.

Incollandoci alla sua visione, devastandoci con le sue bestiali freddure micidiali, svuotandoci entusiasticamente nell’averci incantato spassosamente con le sue comiche trovate e il suo black humor inarrivabile.

Un film in cui Belushi troneggia e gigioneggia a tutto spiano diretto dalla prodigiosa mano d’un John Landis illuminato.

The Blues Brothers è un film che ogni comune mortale, se non lo guarda in vita sua almeno dieci volte, può considerare la sua esistenza stessa una sesquipedale idiozia.

Ci sarebbe da parlarne per ore, appunto per tutta la vita.

Infine, può vantarsi di avere l’inseguimento automobilistico meglio girato e più entusiasmante di tutti i tempi. Roba che perfino i friedkiniani Il braccio violento della legge, Vivere e morire a Los Angeles e Ronin di John Frankenheimer impallidiscono dinanzi a tale spettacolarità geniale.

Ricordate: everybody needs somebody.

 

Sì, dopo la tragedia del Vietnam, Gli USA erano in pieno ribellismo focoso da contestazione fenomenale e rabbiosa, l’America aveva bisogno di evasione, di divertimento sfrenato per dimenticare tanto ingiusto orrore...

The Blues Brothers è uno sterminato inno alla gioia, alla rinascita, un infinito canto d’amore di fratellanza e amore puro come la vita nella sua linda bellezza più bella e cristallina.

 

Dan Aykroyd, John Belushi

The Blues Brothers (1980): Dan Aykroyd, John Belushi

 

di Stefano Falotico

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