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Crocevia della morte

Regia di Joel Coen vedi scheda film

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La recensione su Crocevia della morte

di cheftony
8 stelle

“What are you chewing over?”
“Dream I had once. I was walking in the woods, I don’t know why. Wind kept moving, blew me hat off.”
“And you chased it, right? You ran and ran, finally caught up to it. You picked it up, but it wasn’t a hat anymore. It had changed into something else, something wonderful.”
“Nah, it stayed a hat! And no, I didn’t chase it. Nothing more foolish than a man chasin’ his hat.”

 

 

Leo O’Bannon (Albert Finney) è un boss locale di una città negli Stati Uniti del proibizionismo e della Grande Depressione, che tiene in scacco sindaco e autorità benevolenti e gestisce diversi giri illeciti. Una parte del suo campo consiste nel fare cassa con gli incontri di boxe truccati, al pari del rivale italo-americano Johnny Caspar (Jon Polito): questi, stanco di farsi mettere i piedi in testa dall’irlandese Leo e vistosi rifiutare la richiesta di far fuori il bookmaker truffaldino Bernie Bernbaum (John Turturro), esce furiosamente dall’ufficio di O’Bannon con il fido Eddie the Dane (J.E. Freeman) giurando vendetta.
Il braccio destro di Leo è l’irlandese Tom Reagan (Gabriel Byrne), che invoca saggezza consigliando a Leo di smettere di proteggere Bernie solo perché fratello della sua fiamma Verna (Marcia Gay Harden): solo in questo modo si potrà prevenire una faida sanguinosa da parte di Caspar, ma Leo rifiuta il suggerimento e prosegue imperterrito per la sua strada.
In tutto questo, Tom ha una relazione tesa e clandestina proprio con Verna e dei debiti di gioco ai cavalli con un certo Lazarre, i cui scagnozzi intimidiscono e pestano Reagan a più riprese. Al contempo, Tom si ritrova ripudiato da Leo e arruolato da Caspar, a cui deve subito dimostrare fedeltà sparando in testa a Bernbaum in mezzo al bosco, a Miller’s Crossing. Cinico, silente, solitario e senza cuore, Tom in quel frangente prende una decisione che innesca un’inarrestabile catena di eventi...

 

 

Giunti al terzo lungometraggio della loro splendida carriera, i fratelli Coen recuperano spicchi del noir del titolo d’esordio “Blood Simple”, ma “Miller’s Crossing” è in tutto e per tutto un gangster film tutto borsalini, abiti scuri, pistole. I fratelli di Minneapolis venivano già esaltati dalla critica, ma anche un po’ tacciati di citazionismo intellettual(oid)e - di cui hanno fatto una costante cifra stilistica – in seguito al fiasco di “Raising Arizona”.
Il nocciolo di “Miller’s Crossing” ricalca effettivamente le dinamiche del genere e questa è senz’altro una fortuna, poiché le diramazioni di una trama complessivamente assai intricata fanno sì che qualcosa finisca perso per strada ad una prima visione. Contribuiscono al disorientamento i dialoghi molto fitti, spesso in slang e anticipatori su personaggi ancora non apparsi sullo schermo.
Fotografato da Barry Sonnenfeld (divenuto poi regista) e girato con camera generalmente fissa, “Miller’s Crossing” permette di focalizzarsi sul piacere della ricostruzione di un’America proibizionista, tra interni lussuosi e capannoni, tra pose e sguardi di gangster eleganti e feroci. Lo spettatore tende ad identificarsi con Tom Reagan, apparentemente doppiogiochista (come minimo) e in realtà gangster in proprio, privo di radici, senza un posto dove poggiare il cappello e sentirsi a casa. Il ruolo del suo borsalino, peraltro, è al centro di un mai chiarito giochino intellettuale dei Coen: saldamente sulla testa di Reagan quando è al sicuro, spazzato via dalla sua testa durante le aggressioni e le intimidazioni ricevute. Fin dai titoli di testa, dai quali già emergono le incantevoli musiche di Carter Burwell, il cappello di Reagan assume centralità e si presta a molteplici interpretazioni. Il protagonista stesso rimane enigmatico per tutta la durata del film ed ogni sua mossa sembra rispondere a qualcosa di molto vago, che sia un’etica personale, egoismo o amore (per se stesso, per Verna, per Leo).
In un film così prettamente ricostruttivo (per quanto in una forma sontuosa e rivisitata), hanno un gran peso le prove recitative e l’intero cast di “Miller’s Crossing” non delude, a cominciare dalla prova di una carriera di Gabriel Byrne, che sfodera il suo accento irlandese con malinconia e fissità di sguardo; ma anche i personaggi di contorno sono ben delineati ed interpretati, dall’inglese Albert Finney ad un eccellente Jon Polito, gangster rivali di gran godibilità cinematografica. Da rimarcare anche il crudele Eddie the Dane di J.E. Freeman, la prima direzione da parte dei Coen per due futuri habitué come John Turturro e Steve Buscemi e un’intensa Marcia Gay Harden, in verità un po’ penalizzata dalla caratterizzazione deludente del suo personaggio.
“Miller’s Crossing” è un film dalla difficile gestazione, tanto che il successivo “Barton Fink” è stato scritto durante un blocco dello scrittore sofferto per la sua sceneggiatura; molto deludente al box-office, non è un titolo fra i più ricordati nella filmografia dei Coen. Sontuoso gioco formale che sia o meno, intrattiene con stile e merita un recupero, al netto dei suoi difetti.

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