Stavolta non è mica vero che andiamo a pescare il piccolo gioiello nascosto sotto tonnellate e tonnellate di programmazione che dovrebbero pagarci a noi per vederla. Stavolta non ci infiliamo in nessun meandro umido di nessuno strano servizio di streaming anglofono, bensì entriamo direttamente dal portone principale della BBC e ci dirigiamo – con la nonscialanza di chi non sa che si scrive nonchalance – a sollevare la teca del corrispettivo televisivo dei gioielli della corona: una miniserie rubata impunemente agli indiani ideata e scritta da Steven Knight, ambientata nel teatro dell’Africa della Seconda Guerra Mondiale, ispirata a fatti pazzurdi – pazzeschi e assurdi – capitati seriamente e precedentemente messi in ordine nel reportage SAS: Rogue Heroes pubblicato da Ben MacIntyre.

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Rogue Heros

Steven Knight direi che lo conosciamo tutti, lo troviamo sempre lì adagiato comodo comodo nel suo scranno alla tavolata della serialità di lusso degli ultimi dieci anni: Peaky Blinders, Taboo, See. SAS: Rogue Heroes, invece, è una miniserie in sei puntate che racconta la rocambolesca nascita dell’omonimo reggimento, la Special Air Service, nato per iniziativa privata di alcuni tenenti di stanza in Africa, frustati dall’immobilismo su larga scala dell’esercito Alleato e bisognosi di un antidoto ai rapidi movimenti offensivi di Rommel.

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Rogue Heroes

1941, Nord Africa. Un figlio d’arte scozzese (Connor Swindells, Sex Education) soffre come un animale in gabbia il fatto di essere bloccato nel limbo del Cairo quando invece vorrebbe combattere a Tobruk; ma è rallentato da un maggiore pusillanime e incompetente che si scherma dietro la burocrazia, dunque reagisce affogando nel whisky («Alcolismo giustificato da rabbia interiore») e sniffando etere con la complicità di un amico dottore per ripigliarsi nei doposbronza. Un invasato cattolico poeta rugbista nordirlandese dai sani principi ma anche dallo schiaffo facile (Jack O’Connell, This Is England e Skins), scampa alla prigione militare a suon di pestaggi e sogna di poter essere trasferito nel Burma a combattere i giapponesi.

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Rogue Heroes

E infine un volitivo tenente gallese (Alfie Allen, Game of Thrones), a capo di uno dei piccoli contingenti che da 112 giorni stanno disperatamente difendendo dall’assalto costante dei nazisti Tobruk – porto chiave del fronte africano, necessario per continuare a difendere Suez e non consegnare il continente in mano all’Asse –, un tenente gallese che ormai ne ha le palle piene dell’immobilismo dell’esercito, dunque prende l’iniziativa. I tre si sono addestrati fianco a fianco come commando, corpi speciali trasformati in macchine da guerra, e oggi sono le persone giuste per mettere insieme un reggimento informale di paracadutisti che agisca dietro le linee nemiche interrompendo l’eccessivamente lunga linea di approvvigionamento dei nazisti.

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Rogue Heroes

Ci sono solo due problemi: nessuno si è mai paracadutato nel deserto e non è ancora stato inventato un ordigno esplosivo abbastanza piccolo da poter essere trasportato a mano, ma anche abbastanza potente da distruggere gli aerei a terra dei tedeschi. Nonostante tutti i nostri anti-eroi, «Uomini già morti che aspettano solo la conferma», hanno un sacco di voglia di cacciare i nazisti dall’Africa per poter finalmente smettere di fare la guerra. O almeno di farla nella maniera stupida prevista dai vertici alleati.

La prima puntata, quella delle presentazioni veloci, si abbandona a un discreto numero scritte in sovrimpressione e fermi immagine fighetti per introdurre senza troppe menate personaggi e premesse, un birignao didascalico piuttosto strano per le abitudini di Steven Knight. È quasi quasi il suo modo per fare una tarantinata all’inglese, nel senso che SAS: Rogue Heroes racconta una vicenda che ha delle risonanze con quella di Bastardi senza gloria; e il modo in cui la serie di Knight plasma e manipola la storia al servizio della narrazione non va troppo distante dall’esempio clamoroso di Tarantino. Come avvisa la scritta prima di ogni puntata: la miniserie è basata su una storia vera e fra gli eventi mostrati quelli che sembrano più incredibili sono, in larga parte, realmente accaduti. In questa versione britannica pacata e composta, per dire, c’è spazio per momenti onirici in cui un fantasma recita brani da Ode all’usignolo di John Keats – ha tutto senso all’interno della puntata e non rovina la visione, promesso. D’altronde la guerra è di per sé inganno, dal momento che l’inganno è una guerra alla realtà e la realtà è nemica giurata dei soldati. Ne consegue che la storia di guerra più vera o verosimile, sarà sempre la più falsa; mentre quella più incredibile finirà per essere la più vera.

Autore

Nicola Cupperi

Scrive per FilmTv perché gliel'ha consigliato il dottore. Nel tempo libero fa la scenografia mobile. Il suo spirito guida è un orso grigio con le fattezze di Takeshi Kitano.