Pistola puntata alla tempia, fino a qualche giorno fa avrei detto che l’unica soluzione possibile doveva essere quella di mettere un tetto annuale fissato per legge. Perché il dramma medicale, quel sottogenere di serie tv che ambienta le sue storie piene di retorica e i suoi drammi saturi di enfasi in una corsia d’ospedale (e dintorni), è un genere che si è esaurito precisamente 60 anni fa, quando General Hospital debuttava sui palinsesti di ABC (era il 1963) per non andarsene mai più, sfornando più di 15mila episodi della stessa minestra: becera exploitation delle condizioni patologiche più drammatiche e dolorose, sfruttate per empatizzare con questi poveri medici che tribolano, soffrono, sbagliano, scopano tra di loro, fanno i brillantoni saccenti, si intromettono o vengono coinvolti nelle storie personali dei loro pazienti, scoprono che la tracotanza ogni tanto dovrebbe far posto all’umiltà, litigano con la direzione dell’ospedale perché sono dei ribelli che non si fanno mettere i piedi in testa dalla burocrazia dal momento che stanno salvando vite e le regole per loro non esistono, e via discorrendo.

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General Hospital

Dal 1951 a oggi – i primi sono stati City Hospital e The Doctor, quest’ultimo graziato dall’insensata presenza di un giovane Charles Bronson – negli Stati Uniti sono stati prodotti 139 drammi medicali, contando solamente le serie maggiori. Pur non avendo avuto il privilegio di averle viste proprio tutte tutte, a naso di queste 139 serie salverei giusto M*A*S*H (in cui la parte medicale è asservita ad altro), le prime stagioni di ER (una delle prime serie a portare come si deve una certa dose di realismo e sporcizia in corsia), The Knick e un paio di altri titoli che hanno saputo giocare con i generi per rendersi più interessanti (Dr. House e Scrubs). Il resto è, in relazione al linguaggio televisivo, il corrispettivo di una gigantesca montagna di pattume fumante: tutto uguale anche se fatto di materiali di scarto diversi, ipnotico per i primi 30 minuti spesi a chiedersi “ma perché esiste? Chi è il responsabile di questa barbarie?”, e soprattutto maleodorante, particolarmente in giornate calde.

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M*A*S*H

Fortuna che i pregiudizi sono fatti apposta per essere divelti a colpi di belle serie inaspettate. This Is Going to Hurt è un dramma medicale prodotto da BBC in forma di miniserie – probabilmente, non si sa con certezza, nel senso che è autoconclusiva, ma nulla le vieta di riproporre gli stessi personaggi all’interno di un nuovo arco narrativo – che rientra perfettamente nei canoni del sottogenere tematico in questione, ma che riesce anche ad elevarsi al di sopra degli stantii archetipi da narrazione ospedaliera. Innanzitutto la storia attorno a cui è costruita This Is Going to Hurt è molto semplice e lascia il corretto spazio allo stile e alla costruzione dei personaggi, senza riempire di rumore bianco – dieci minuti di anamnesi fantasiose scritte da laureati in scienze della comunicazione e ripetute a pappagallo da attori che non ci stanno capendo nulla, per esempio – i vuoti fra una scena madre e l’altra: sanità pubblica inglese, un errore di diagnosi nell’episodio pilota che si ripercuote fino al finale di stagione, un brillante giovane ginecologo che funge da primario informale in un reparto sottopersonale e sottoequipaggiato, una giovane dottorina fresca di studi che cerca di imparare a gestire lo stress, e le loro vicende private che influenzano la loro vita in corsia, e viceversa.

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This Is Going to Hurt

Il protagonista Adam – un clamoroso Ben Whishaw – è un medico brillante, seppur non infallibile, che affronta il suo difficile mestiere con stoicismo e ironia asciutta, non sempre ben accolta fra colleghi e pazienti. D’altronde Adam è un trentaequalcosaenne con alcuni tratti irrisolti, che non è ancora riuscito a confessare la propria omosessualità all’antipaticissima madre, che il più delle volte dorme dentro alla sua utilitaria perché è in quella fase della carriera nel settore pubblico in cui ha le responsabilità di un dirigente ma lo stipendio e gli orari di una burba.

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This Is Going to Hurt

Insomma: quella di Adam è vita intensa, felicità a momenti e futuro incerto. This Is Going to Hurt è bello perché, semplicemente, sembra finalmente vero. Sembra un dramma medicale che non ha bisogno di calcare la retorica e il dramma con trucchetti narrativi e registici. Il segreto della serie è che è stata scritta e prodotta da Adam Kay, comico e sceneggiatore con un passato da ginecologo (?!); il quale ha raccolto la sua esperienza medica in un omonimo romanzo, prima di trasformarlo in serie tv.

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This Is Going to Hurt

Quindi cosa abbiamo imparato oggi? Che per realizzare un dramma medicale come si deve, bisogna semplicemente farlo scrivere da un valido sceneggiatore che abbia anche fatto il dottore in corsia per una decina d’anni. Facile no? D’altronde quanti saranno, al mondo, gli sceneggiatori ex ginecologi?

Autore

Nicola Cupperi

Scrive per FilmTv perché gliel'ha consigliato il dottore. Nel tempo libero fa la scenografia mobile. Il suo spirito guida è un orso grigio con le fattezze di Takeshi Kitano.