Giurassico, di nome e di fatto

Più che un film, un software. Atteso, il nuovo capitolo della saga giurassica si rivela il più deludente, e a nulla vale il ritorno di Sam Neill, Laura Dern e Jeff Goldblum. Probabilmente se ne occuperanno i narratologi del futuro, ma il cinema statunitense, oggi, è davvero “tutto uguale”.

Finito evidentemente il momento di euforia anarchica e trasformista della rivelazione delle possibilità del digitale, con il suo slancio tutto visivo e documentario, ci si ritrova con film strutturalmente identici fra loro. La scansione delle scene d’azione, costruite con incremento proporzionale (ma tutto già visto), i dialoghi segnaletici (che ripetono instancabili il concetto «non siamo soli, dobbiamo convivere, è la nostra sola forza»), l’inanità di qualsiasi progressione drammatica affidata esclusivamente a dialoghi stucchevoli (cosa segnalata assurdamente nel film stesso) finiscono per produrre un film privo di vita.

In questo nuovo episodio la Biosyn (occhio al calembour casomai vi fosse sfuggito...) crea delle locuste giganti per alterare la catena alimentare e dominare i nuovi mercati, e la piccola Lockwood è l’elemento chiave per fermare i “cattivi”. Nostalgie - ma in realtà teaser merceologici - come il cappellaccio di Sam Neill che allude, per metonimia, al prossimo ritorno di Indiana Jones poco possono per sollevare l’interesse di un film che preme il piede sull’acceleratore ma resta drammaticamente piatto (e il doppiaggio italiano, poi, fa il resto).

Non ci si aspettava Spielberg, ma siamo ad anni luce persino da Bayona. Così, nonostante l’inevitabile perfezione dei dinosauri digitali, si accoglie con sollievo l’arrivo dei titoli di coda.

Il film