Siamo tutti d’accordo sul fatto che l’industria dello spettacolo sia, genericamente parlando, simile a qualsiasi altro ambiente di lavoro competitivo e con molti soldi e potere in ballo, ma pompato all’ennesima potenza da vanità, narcisismo e tracotanza: è un covo di serpi ipocrite pronte a pugnalarti alle spalle o (peggio ancora) contattarti tramite avvocati, mentre davanti alla stampa si profondono in complimenti imbarazzanti. È lo show business bellezza, ci sta. È un piccolo villaggio di ultra ricchi e famosi con la bava alla bocca, è normale non stare simpatici a tutti. La cosa davvero romantica, però, è che come in ogni villaggio anche a Hollywood c’è il giullare. La persona che ha un’unica missione ben precisa: portare il buonumore e strappare una risata. Non perché è un lavoro, ma proprio perché sennò sta male. Nessuno dice cose brutte alle spalle di un bravo giullare, e l’unico a cui può stare antipatico è il vecchio giullare costretto ad andare in pensione quando quello nuovo comincia a essere più divertente di lui. Negli ultimi 30 anni, il migliore giullare di Hollywood – purtroppo a partita IVA, non ci sono più le sicurezze di una volta nemmeno a corte – è stato Conan O’Brien. Un comico in missione da sempre, descritto da Stephen Colbert come uno che “non lascia la stanza finché non riesce a far ridere tantissimo tutti i presenti. Il che lo rende perfetto alle feste, un po’ meno ai funerali”.
Alla buon’ora, O’Brien viene finalmente insignito del massimo premio statunitense per la comicità: il Mark Twain Prize for American Humor conferito dal Kennedy Center, ovvero il più importante centro per le arti del paese. Un premio che, peraltro, diventa suo malgrado anche politico, visto che negli ultimi tempi il presidente Donald Trump ha deciso di assumere in prima persona la direzione artistica del Kennedy Center, ma questa è un’altra storia. Nel frattempo basti sapere che Conan O’Brien è il ventiseiesimo assegnatario del busto dedicato al più grande umorista statunitense di sempre, e in questi casi, per celebrare il vincitore, si invita un gruppo di colleghi a dire qualcosa di bello, significativo e (in quanto colleghi) si spera anche dignitosamente divertente.
Fedeli alla teoria del giullare, si scopre che i colleghi di Conan lo amano di un amore reale e sincero – va bene che sono attori e presumibilmente sanno piangere a comando, ma alle lacrime di commozione di David Letterman ci credo – e anche per questo gli hanno regalato uno spettacolo comico (Conan O’Brien: The Kennedy Center Mark Twain Prize for American Humor, lo trovate su Netflix) degno di una carriera che, nel gergo del mestiere, viene tecnicamente definita come “matta in culo”. O’Brien studia ad Harvard: sul campus calcato da 8 presidenti USA e fra le aule frequentate da 188 premi Nobel e da 48 premi Pulitzer si staglia anche un pennone rosso che diventa il più giovane direttore di sempre del giornale satirico universitario e sogna di salvare un pochino il mondo (e se stesso) facendo ridere la gente. Poi debutta come autore di Saturday Night Live, quindi passa dalla stanza degli sceneggiatori dei Simpson durante l’epoca d’oro della serie, e infine approda al mondo dei Late Night Show, dove viene coinvolto in una serie di pasticciacci brutti – da ufficio all’ennesima potenza – che non vi sto qui a raccontare anche perché è una storia infinita.
Come gli ricorda John Mulaney, fan della prima ora: essere appassionati di Conan O’Brien è una faccenda stressante. La sfiga e i dirigenti miopi lo hanno intralciato più volte, costringendolo a reinventarsi in mille maniere e a cadere sempre in piedi. Oggi produce e conduce podcast e programmi di viaggio con il suo Team Coco, ed è stato il presentatore dell’ultima serata degli Oscar.
Oltre ai già citati, si alternano sul palco anche Will Ferrell, Nikki Glaser (“la Ricky Gervais donna, ma con battute più divertenti e tette più piccole”), Bill Burr, Kumail Nanjiani, Fred Armisen, Tracy Morgan, Reggie Watts, Andy Richter e Adam Sandler. Tutti in fila, uno più divertente e commosso dell’altro, a ribadire la natura speciale di O’Brien, che similmente ai numi Monty Python è in grado di unire il fine umorismo di una persona educata alla migliore cultura con la comicità più sciocca e ridicola possibile. Il tutto, però, creato e operato con raffinata intelligenza. Lo sottolinea Sarah Silverman, quando ricorda che è stato Conan a scegliere lei, una donna ebrea, per interpretare Hitler in uno sketch. Un’idea tanto stupida quanto brillante.
Conan accetta l’onorificenza con “spirito di umiltà, stupidità, inutilità, irrilevanza, paura, insicurezza e profonda, incessante leggerezza”. Conclude lo spettacolo con un discorso di ringraziamento che scende con grazia nel politico, senza buttarla in gazzarra o retorica, ma solo citando le parole e i principi di Mark Twain. Allo stesso tempo, però, solo trenta secondi prima faceva ringraziare tutte le persone a lui care da un banditore di bestiame che parla a dieci parole al secondo. E senza contare il gran finale: Will Forte fra il pubblico nei panni di Mark Twain che duetta con O’Brien e poi lo abbraccia sul palco, dove ballano un lento e a loro si unisce un gruppo di comparse anche loro travestite da scrittore umorista a cui è stato dedicato un premio che è appena stato conferito alla persona più divertente in circolazione, l’unico vero giullare degno di questo titolo fondamentale.
Lo show
Conan O'Brien: The Kennedy Center Mark Twain Prize for American Humor
Commedia - USA 2025 - durata 86’
Titolo originale: Conan O'Brien: The Kennedy Center Mark Twain Prize for American Humor
Regia: Marcus Raboy
Con Conan O'Brien, John Mulaney, Will Ferrell, Nikki Glaser, Brian Stack, Bill Burr
in streaming: su Netflix Netflix Basic Ads
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