Ariaferma di Leonardo Di Costanzo è, come hanno detto in molti, un film sull’assurdità dell’istituzione carceraria, un documento sulla pervasività del controllo sociale - il richiamo architettonico evidente è al Panopticon, il carcere turrito costruito per impedire qualunque spazio privato, teorizzato dal filosofo Jeremy Bentham e usato in chiave metaforica (?) da Foucault in Nascita della prigione e da Goffman in Asylum, due capisaldi della sociologia postmoderna; è anche uno scontro corporeo, dialettico e mentale tra due mostri sacri della recitazione italiana, appartenenti alla stessa generazione e - per così dire - “scambiati di ruolo” (Servillo, paratestualmente criminale, diventa guardia, Orlando il “buono”, è un imperturbabile boss della mala).

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Tutte queste cose, per quanto vere, vengono condite nel finale da un elemento ulteriore, che interviene in dirittura d’arrivo - quando ormai lo spettatore ha fatto le sue considerazioni morali di rito - per illuminare retroattivamente l’opprimente prisma. La guardia Gargiulo (Servillo) e il boss Lagioia (Orlando) fin dall’inizio distanti per ruolo, temperamento, coscienza (soprattutto a causa della freddezza del primo), legano sempre più, costretti alla convivenza nella cucina adibita all’uopo, su insistenza del secondo, proprio per ovviare alla scarsità di cibo che li accomuna, nella situazione kafkiana che entrambi vivono.

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Il secondino non pensa - a differenza del collega Coletti (Fabrizio Ferracane) - che i detenuti siano bestie, da trattare con indifferenza quando non con crudeltà; per questo cede alle richieste ragionevoli del criminale (che ne intuisce l’umanità) e in più occasioni si “abbassa” al livello dei delinquenti che dovrebbe presidiare. Ma non apre mai il suo cuore e la sua mente: nonostante l’isolamento forzato non vuole cedere terreno personale, o condividere confessioni o dubbi. E nulla ci vieta di pensare, a parte il finale, che egli possa riuscire a mantenere le distanze che il suo ruolo richiede. Il fornitore alimentare della prigione salta una consegna e Lagioia comunica che non può cucinare la seconda portata; perciò la guardia lo accompagna nel cortiletto retrostante dove un ex-detenuto curava un orticello, così da recuperare qualche verdura fresca.

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Per la prima volta, in quell’isolamento a due contenuto nell’isolamento “panottico” circostante (e non è da dimenticare che il film venne girato sotto COVID), Gargiulo si lascia andare e chiede al detenuto notizie su suo padre. Poi dà notizie del suo. E Lagioia con una breve sentenza dimostra di averlo riconosciuto: i due sono cresciuti nello stesso quartiere, i loro padri si conoscevano quasi certamente; entrambi ora sanno da dove viene l’altro e “a chi è figlio”.

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Probabilmente Lagioia ha riconosciuto il compare fin da subito, tanto quanto è probabile che Gargiulo non avesse fatto altrettanto. E allora le ironiche sentenze del boss, a posteriori, non paiono più furbe imbeccate per manipolare un secondino, quanto il richiamo ad una solidarietà “da quartiere”. Lagioia individua e diagnostica l’umanità del suo sorvegliante perché lo riconosce come persona che esisteva già prima del carcere (quel carcere che è condanna reciproca, checché ne dicano le guardie), come essere umano che ha avuto una vita e un’identità fuori da quelle mura.

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Fa quello che, per ottemperare allo stato di diritto, dovrebbero fare anche i suoi carcerieri: ricordarsi di star trattando con persone non definite solo dal loro vissuto momentaneo. E così anche quando la guardia conduce nuovamente il carcerato in cella, e la vita dietro le sbarre ricomincia a scorrere come prima, l’uno nella sua piccola stanza insieme a un altro detenuto, l’altro al centro a controllare che tutto si svolga correttamente, i ruoli si sono ristabiliti ma solo all’apparenza.

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Perché i due “nemici” hanno le stesse origini, sono cresciuti con gli stessi sapori, odori, colori, le stesse voci ad accompagnarne crescita, scelte ed errori. Ma con risultati agli antipodi (all’apparenza). Il finale di Ariaferma forse ci dice proprio questo però: non importa il risultato quanto la partenza. Non si sfugge alle proprie origini, alla propria storia, e quindi alla propria identità: perfino dentro una gabbia senza vie d’uscita. Nonostante la sua ambientazione esclusivamente e ossessivamente carceraria il film di Di Costanzo è allora, per paradosso, un’opera su ciò che c’è al di fuori delle sbarre. Un memorandum sulla irriducibilità dell’esistenza alle brutture della società umana.

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Autore

Dario Denta

Nato a Bari nel 1994, ha studiato Matematica e Filosofia tra Perugia e Firenze, caporedattore de Lo Specchio Scuro, è uno dei conduttori del podcast di cinema Salotto Monogatari. Ha scritto su Shiva Produzioni, L’inutile, Ghinea, La Chiave di Sophia, agit-porn e Immoderati e ha dato un piccolo contribuito al Dizionario Mereghetti 2022. Si interessa di estetica del cinema e della videoarte.

Il film

locandina Ariaferma

Ariaferma

Drammatico - Italia/Svizzera/Francia 2021 - durata 117’

Regia: Leonardo Di Costanzo

Con Toni Servillo, Silvio Orlando, Fabrizio Ferracane, Salvatore Striano, Roberto De Francesco

Al cinema: Uscita in Italia il 14/10/2021

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