Nel finale di Cure, il detective Takabe è seduto a un tavolo, adiacente a una finestra. Mangia una bistecca, ripulendo il piatto, e risponde al telefono, chiedendo l’invio di una pattuglia. Una cameriera gli offre del caffè e lui accetta, accendendo subito dopo una sigaretta. Mentre il tavolo viene sparecchiato, Takabe fuma noncurante (il suo interprete, Koji Yakusho, ormai maestro della neutralità come marchio attoriale), facendo brillare la sigaretta davanti alla cameriera.

Poi ecco che un taglio di montaggio ribalta la prospettiva all’improvviso: ci troviamo dall’altro lato della stanza, in un ribaltamento di 180 gradi, grazie a un’inquadratura che ci mostra in primo piano il volto del detective e il resto del ristorante sfocato dietro di lui. Quando il protagonista aspira di nuovo il fumo, due volte, il luccichio della sigaretta è di fronte ai nostri occhi, molto visibile, assieme anche a due punti luminosi sullo sfondo resi ancora più evidenti grazie all’assenza di profondità di campo.

La macchina da presa si sposta leggermente sulla sinistra, si alza e mette a fuoco l’ambiente circostante, una dimessa tavola calda in un giorno qualunque. La nostra prospettiva ora è fissa sulla cameriera. La vediamo di spalle muoversi per il locale, poi ascoltare il suggerimento della sua caposervizio. L’inquietante musica extra diegetica si interrompe, lasciando spazio ai rumori ambientali. Sulle spalle della cameriera, l’intreccio del grembiule da lavoro forma una “X”. Ce ne si può accorgere poco prima che la ragazza attraversi la sala per afferrare un coltello.

Perché la dipendente impugna lo lama tenendone l’estremità verso il basso? Sta per pugnalare qualcuno di soppiatto o non vuole girare per il ristorante rischiando di ferire per sbaglio i clienti?

Una nuova immagine si pone di fronte ai nostri occhi, rappresentando una strada. Si tratta però dei titoli di coda, che scorrono frammentari, come se passassero attraverso un taglio apportato sull’immagine stessa.

Un prosieguo della scena (visibile nei contenuti speciali del Blu-ray giapponese del film) venne girato per mostrare l’accoltellamento da parte della dipendente, ma fu rimosso per volontà del regista, Kiyoshi Kurosawa: lo scudo protettivo infilato sotto al costume dell’attrice la faceva sembrare troppo impacciata, scontentando il regista, fermamente convinto nella naturalezza dell’interpretazione come prima porta di accesso per il suo tipo di realismo.

Kurosawa riconosce nel naturalismo dell’interprete un principio formale capace di andare oltre il servizio alla drammaturgia e alla sospensione dell’incredulità, per informare allegoricamente il racconto. A differenza di un regista come Robert Bresson, interessato a sfiancare gli attori per togliergli il metodo e intercettare la loro pura “meccanica d’essere” nello spazio e nel tempo, il regista giapponese si è detto spesso “interessato a catturare l’attore nel momento prima che si trasformi effettivamente nel personaggio fittizio che ho creato. Mi interessa quel punto di ingresso in cui l’essere umano sta cercando di diventare un personaggio fittizio ma non ci è ancora riuscito del tutto. I cittadini delle aree urbane in Giappone oscillano e tentennano continuamente tra il loro sé reale e il loro sé sociale, che hanno creato per riuscire a sopravvivere nella società. Quindi, in questo senso, quando catturo l’attore nel processo di diventare il personaggio fittizio, io ho, di fatto, creato il riflesso del tipico abitante urbano giapponese, in bilico tra i due”.

La possibile, impercettibile, contraddizione di questo principio di politica dell’attore (e dell’autore) non sembra essere l’unica ragione per la rimozione della scena. L’assenza di un finale compiuto è segno “meno” coerente per la matematica e la geometria visiva di questo regista, cresciuto a Tokyo studiando prima sociologia e poi cinema secondo gli insegnamenti del teorico Shigeiko Hasumi. È Hasumi a insegnargli che il cinema è un medium che può essere capito attraverso ciò che è “incapace di fare”, i suoi “limiti costitutivi, le sue impossibilità, i suoi impedimenti”. Il negativo costruisce, non il positivo. La negazione dell’informazione, non l’affermazione. Il vuoto, non il pieno.

Proprio il vuoto tra le cose – come nel caso del controllo della recitazione - definisce l’esperienza di Kurosawa, prima come cittadino - nato in una generazione “più vecchia della Otaku (quella associata alla bolla immobiliare degli anni 80) ma più giovane della Zenkyoto (delle proteste degli anni 60’), e quindi maggiorenne negli anni 70 (la Shirake), il tempo del niente, del vuoto, senza nulla a perturbare, né piacere né dolore” - e poi come cineasta, pensatore per immagini. Cure è costruito su un vuoto prima generato da continue rimozioni – soggettive senza personaggi, piani sequenza senza personaggi agenti, scene senza seguito - e poi distribuito attraverso intermittenze strutturali, ripetizioni, come in una partitura dove viene fatto risuonare.

Lo si vede fin dall’introduzione di Mamiya, la nemesi di Takabe interpretato dall’idolo ribelle dei teenager giapponesi Masato Hagiwara, responsabile della serie di omicidi che mette in moto la narrazione, che appare grazie a un intervento sui vuoti costitutivi del montaggio. La figura del giovane studente di psicologia, capace di ipnotizzare e convincere le persone a commettere atti violenti, appare proprio come dal nulla, o meglio, come se il nulla avesse preso forma. Kurosawa (con il suo montatore Kan Suzuki) entra in questo caso nella convenzionale struttura causale del campo controcampo di una soggettiva e disarticola i nessi motivazionali di causa-effetto – ispirandosi, a detta sua, al linguaggio del cinema americano, capace di lavorare bene sulle scene in-between: al campo lungo di una spiaggia ingrigita dal vento e dalle nuvole segue un campo medio su un uomo che guarda qualcosa fuori campo, come a rivelare la prima inquadratura come una soggettiva, per poi seguire con lo stesso campo lungo, solo con l’introduzione di una figura umana.

Questo tipo di riscrittura della grammatica cinematografica, che sembra scomodare Kulešov per rileggere e sublimare i tempi morti del cinema americano - però attraverso principi dell’estetica buddista, come quel Mu (“non essere”) presente nel cinema trascendentale di Ozu -, costruisce una partitura che alternando vuoti e pieni, più piani del racconto, più livelli di realtà, trasforma la bidimensionalità narrativa della detective story in un oggetto tridimensionale, un’architettura labirintica programmata per disorientare, o meglio, ipnotizzare – lavorando anche e soprattutto sugli effetti di superficie, prospettica (quanta aria nei film di Kurosawa, quante stanze vuote), luministica e musicale.

Seguendo il programma ipnotico dell’intermittenza – etimologicamente il “messaggio mandato, lasciato cadere, tra” - Kurosawa ripete infatti sequenze, inquadrature, dettagli, ma sempre inserendo un piccolo scarto, una leggera differenza, per dissestare la memoria dello spettatore e iniettare di oscurità il suo sguardo: lo notate il pendolo in penombra, nel campo lungo che inquadra la vetrina a fianco alla lavanderia dove il detective dimentica di non aver mai portato dei vestiti? E il suono della lavatrice azionata da Fumie, sua moglie, durante gli interrogatori agli assassini ipnotizzati? È impossibile in questa sede riassumere tutte le stratificazioni manipolatorie di Cure – che dire, per esempio, della possibile uccisione della moglie da parte del protagonista, secondo la prospettiva tutta junghiana che suggerisce Domenic Lash nel volume di analisi del film curato per la collana dei BFI Classic; e tuttavia bastano i pochi secondi del finale per comprendere l’intensità di un testo infinito, inesauribile tanto quanto l’abisso che ha il coraggio di fissare.

L’inquadratura del ristorante che apre la sequenza finale ne ripete una di poco precedente, pressoché identica, in cui Takabe era mostrato seduto nella stessa posizione, inquadrato dalla stessa prospettiva. La scena precedeva la scoperta, da parte del detective, della tecnica mesmerica di Suejirō Bakuro, un occultista della fine del XIX secolo che istigava all’omicidio le persone ipnotizzandole e disegnando col dito una “X” nell’aria davanti a loro – secondo Chika Kinoshita, il J-Horror (genere che germinerà proprio da Cure), si lega a un evento leggendario e misterico della cultura urbana giapponese, proliferato grazie ai mass media. Sakuma (Tsujioshi Ujiki), il collega di Takabe, ipotizza che Mamiya potrebbe essere l’ultimo “missionario” di una setta oscura. La sua intuizione arriva da una trance profonda, in cui lo psichiatra della polizia visita (forse su un piano tutto mentale) lo stesso edificio dove poi, nella stanza dei desideri più profondi e delle identità infine rivelate, Takabe incontrerà per l’ultima volta l’ipnotista e ascolterà un vecchio nastro musicale – in qualche modo l’epitome della partizione asimmetrica del film, con il suo tessuto visivo e drammaturgico continuamente bucato per formarne una litania cerimoniale ipnotica.

Quando Kurosawa ci riporta all’ultima scena della cameriera, l’intermittenza tra le due ripetizioni lascia precipitare un messaggio. O meglio, mostra il vuoto stesso come principio strutturante del mondo. Il nulla come principio di realtà. E del cinema, medium che manipolando, scolpendo fuori l’invisibile vuoto tra due inquadrature (quello che Amos Vogel chiamava “il nero” da cui si origina il movimento) può ogni volta inoculare nell’occhio la disarticolazione tra causa ed effetto - riallineando i sensi e la cognizione nell’epoca in cui questa disarticolazione domina sovrana, segnando la fine della razionalità, del senso e della comprensione.

Nel finale l’immagine giunge a un punto di ebollizione in questo senso: quella che vediamo è una cartolina assoluta, sciolta cioè dalla narrazione, una pura istantanea della modernità. La sigaretta brilla davanti a noi. La “X” si inscrive nei nostri occhi. Ecco che anche noi sentiamo non un dubbio, ma una strana lucidità pervaderci: il Male che sentiamo e tratteniamo dentro, che rimuoviamo e nascondiamo sotto una maschera di plastica, non ha causa, motivazione, logica morale o immorale, ma semplicemente è. Lì, senza ragione. E si può diffondere. Per questo Cure (forse la più importante teodicea contemporanea) non finisce, si propaga. La fine dell’illuminismo è qui, la fine della luce è eterna.
Il film
Cure
Thriller - Giappone 1997 - durata 111’
Titolo originale: Kyua
Regia: Kiyoshi Kurosawa
Con Koji Takusho, Anna Nakagawa, Tsuyoshi Ujiki, Masato Hagiwara
Al cinema: Uscita in Italia il 03/04/2025
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