A prima vista, con sguardo poco attento e rallentato dagli stereotipi, potrebbe sembrare che il k-drama sia un linguaggio televisivo iperbolico votato al sensazionalismo e al sopra le righe. A seconda vista invece, con sguardo più attento e con più conoscenza sulle spalle, è chiaro che il k-drama sia un linguaggio televisivo extra-iperbolico che si crogiola nella ricerca di un’eccezionalità fuori scala anche per la più fervida delle immaginazioni, con la consapevolezza di aver scovato una delle forme più moderne e coinvolgenti per comunicare con l’emotività dello spettatore. E quindi vai di Goblin millenari, di vendette a lunghissima macerazione e di complicatissima fattura, di impossibili interazioni tra Nord e Sud e di complotti politici che nemmeno negli Stati Uniti. Quello che i poteri forti vi nascondono, però, è che esiste anche una terza vista, quella dei rari k-drama che vanno a scovare vicende normalmente sensazionali e le raccontano senza cercare di farti cascare la mascella a ogni scena, ma senza per questo rinnegare le altre caratteristiche del linguaggio.

Venticinque e ventuno è un originale Netflix del 2022 sviluppato da Studio Dragon (gli stessi di La creatura di Gyeongseong), è interpretato dalla sublime Kim Tae-ri (The Handmaiden, Alienoid) ed è uno dei k-drama sobri più soddisfacenti degli ultimi anni.
La premessa di Venticinque e ventuno è che essere quindicenni durante il COVID fa schifo, ma fa ancora più schifo essere quindicenni durante il COVID e avere una madre perfetta con un passato da campionessa della scherma e con la quale è complicato fare il paragone. L’afflitta e incazzata Kim Min-chae molla il balletto, si dichiara ufficialmente stufa di essere costretta a subire la pressione di avere per forza un sogno e scappa dalla madre Na Hee-do per rifugiarsi a casa della nonna. Siamo all’inizio di un k-drama, e quando Min-chae scova il diario che l’odiata madre redigeva quand’era adolescente, mi aspetto come minimo che si apra un varco spazio-temporale e che la coscienza della figlia si ritrovi incastrata nel corpo della madre diciassettenne, o qualcosa del genere. Non in Venticinque e ventuno, che semplicemente lascia la cornice del presente e torna nel 1998 per raccontare la giovinezza di Hee-do ai tempi di una delle peggiori crisi economiche della storia moderna sudcoreana.

Hee-do è un’adolescente agli antipodi rispetto a Min-chae. Brucia di passione e di entusiasmo, alimentati da un sogno che brilla fulgido nel suo personale firmamento: diventare una campionessa di scherma e raggiungere il livello della sua eroina Go Yu-rim, coetanea iscritta a un liceo vicino e che ha già ottenuto il suo primo successo internazionale. Tutta questa positività resiste a dispetto della prematura morte del padre e dei rapporti più che tesi con la madre Jae-kyung, troppo impegnata con la carriera da anchorwoman per prestare attenzione alle ambizioni della figlia, figuriamoci per sostenerla. Anzi. Jae-kyung tratta con durezza Hee-do, le rinfaccia di non aver mai ottenuto risultati sportivi degni di nota, la sminuisce e tenta di umiliarla. Il sogno della ragazza, però, è talmente intenso che nulla può distoglierla. Nulla tranne il capitalismo.

Quando implode la crisi economica del ‘98, i primi fondi pubblici a essere tagliati sono quelli delle associazioni sportive scolastiche. La squadra di scherma di Hee-do viene smantellata, e l’unica speranza di continuare a praticare la disciplina è quello di cambiare liceo, iscrivendosi a quello di Yu-rim e sfruttando i successi di quest’ultima che rendono intoccabile la sua squadra di scherma. Non solo i borghesi piangono, però. Nel quartiere di Hee-do, infatti, si trasferisce il ventiduenne Baek Yi-jin, figlio di una famiglia di ricchissimi imprenditori finiti in bancarotta, allontanatosi dai genitori per non pesare con ulteriore bocca da sfamare in questi tempi disperati. Yi-jin ha affittato una catapecchia e racimola quanti più soldi possibili facendo qualsiasi lavoretto gli capiti sotto mano: il fallimento dei genitori gli ha impedito di finire l’università, e in Corea del Sud più che in altri posti questo è una stigma particolarmente complicato per ottenere lavori stabili.

La tavola di Venticinque e ventuno è ben apparecchiata per servire quella che è molto più della solita storia d’amore – c’è anche lei, attenzione, ma non inizia né finisce come ci si aspetterebbe – o della solita parabola sportiva. È il lungo dialogo fortuito fra una madre e una figlia, che si guardano negli occhi pur stando su piani temporali differenti e per la prima volta riescono a intendersi. Min-chae rivive la storia di Hee-do quando lei aveva più o meno la sua stessa età e forse intuisce che i sogni esistono certamente di per sé, ma sono alimentati da sacrifici e da rinunce, e che l’entusiasmo si fomenta anche con la disciplina e con la forza di volontà; che la vita non sempre è giusta e men che meno al tuo servizio, ma non c’è bisogno di abbattersi. L’importante è portarsi sempre dietro l’ombrello.
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