Per alcuni film vale la regola per cui ogni descrizione è impossibile (e quindi impossibile la critica cinematografica in senso stretto) quantomeno perché quello che appare sullo schermo è riducibile solo a una formula vuota di parole (si pensi ai tentativi di racchiudere in un sintagma la sequenza psichedelica di 2001. Odissea nello spazio) oppure perché ciò che vediamo – pur essendo ‘narrazione’ – si svolge su un piano che non ha nessun collegamento con la realtà o con sue versioni similari, qualcosa che ad esempio segua “la logica del sogno”. È lo stesso Orson Welles a definire il suo film (e Kafka stesso) in questo semplice ed efficace modo nell’incipit di Il processo (1962) tratto dall’omonimo romanzo incompiuto del grande scrittore ceco.

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Il processo

Josef K., interpretato da Anthony Perkins in una delle sue prove più personali insieme a quella di Psyco (due personaggi con qualche irrisolto freudiano con le donne, come ne ebbe dichiaratamente l’attore), lotta disperatamente con un Potere invisibile che vuole condannarlo senza capi d’accusa, vaghi quanto le modalità della pena, e si muove in uno spazio decisamente non euclideo impedendo allo spettatore di cogliere i nessi spaziali e temporali tra luoghi ed eventi; da ciò la difficoltà nel verbalizzare il finale, in cui tale nevrosi iconica e architettonica raggiunge la sua acme.

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Il processo

I contorni dei luoghi sono sempre meno nitidi e gli arredi che dovrebbero identificarli scompaiono. Ogni luogo è uguale a sé stesso, minaccioso, già prigione prima ancora della condanna, tutto è inevitabile quanto confuso. Originariamente Welles avrebbe voluto far muovere gli attori all’interno di spazi bianchi che diventassero sempre più liquidi ma – solito di Welles – l’idea era troppo pionieristica per le possibilità dell’epoca. È proprio nel finale però che ci si approssima meglio alla visione. Josef K. corre e attraversa un tribunale vuoto (che sappiamo essere tale solo perché chiamato così) per poi passare in un blank space che è anche la pagina vuota di un libro o di un quadro.

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Il processo

Lì lo stesso Welles (narratore all’inizio e poi avvocato difensore, parte del Potere che condanna Josef) proietta su uno schermo le immagini dell’incipit realizzato con le tecniche di animazione di Alexandre Alexeieff. Il finale è quindi circolare col prologo, o vorrebbe esserlo, e stiamo per assistere alla ripetizione della parabola del contadino davanti alla Legge, che però è proprio Josef a interrompere stagliandosi davanti allo schermo, bloccando il film nel film.

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Il processo

La parabola è presente anche nel romanzo originario ma ha tutt’altra funzione: la racconta a Josef il prete venuto a confessarlo e l’enigmaticità del racconto avviluppa i due in una catena di interpretazioni che convincono il condannato della impossibilità di dare ordine al caos del mondo. Essendo il racconto già stato pubblicato in precedenza da Kafka l’intero capitolo è anche una riflessione metanarrativa e questo aspetto autoreferenziale è mantenuto nell’adattamento di Welles (che ritroveremo in molti altri film e drammi da lui scritti negli ultimi vent’anni di carriera).

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Il processo

Però come si è detto, qui il protagonista si rifiuta di interpretare la parabola, spodesta l’arte dal suo ruolo orientativo e, disperato, fugge, perdendo definitivamente bussola e identità nonostante i suoi sforzi per preservare entrambi. Il rifiuto della filosofia (e del cinema) in nome della salvezza.
Raggiunto dai sicari incaricati dal tribunale viene alfine gettato in una fossa e fatto esplodere.

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Il processo
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Il processo

L’espediente oltre che un riferimento all’atomica (si ricordi il finale mai realizzato del Don Chisciotte wellesiano) rende più dirompente e ‘pubblico’ il sacrificio di Josef K. Se nel romanzo viene ucciso in un vicolo, nascosto agli occhi di tutti, aggredito come un cane, in modo silenzioso, e rappresenta quindi l’orrore della condizione umana tutta: andarcene in silenzio dopo la condanna per un crimine mai commesso; nel film – anche per via dei tentativi ribellistici di Josef, così dissimile in questo dall’omonimo letterario – la condizione umana esplode (letteralmente) nella sua evidenza, diventa chiassosa, lampante, cristallina e disperata. Il finale attualizza un Kafka ancora asburgico, pre-hitleriano, rappresentando quello che il Novecento forse è stato: il secolo in cui abbiamo riprodotto gli orrori dei secoli passati ma urlandoli a gran voce.

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Il processo

Autore

Dario Denta

Nato a Bari nel 1994, ha studiato Matematica e Filosofia tra Perugia e Firenze, caporedattore de Lo Specchio Scuro, è uno dei conduttori del podcast di cinema Salotto Monogatari. Ha scritto su Shiva Produzioni, L’inutile, Ghinea, La Chiave di Sophia, agit-porn e Immoderati e ha dato un piccolo contribuito al Dizionario Mereghetti 2022. Si interessa di estetica del cinema e della videoarte.

Il film

locandina Il processo

Il processo

Drammatico - Italia/Germania/Francia 1962 - durata 118’

Titolo originale: Le procès

Regia: Orson Welles

Con Anthony Perkins, Jeanne Moreau, Romy Schneider, Orson Welles, Elsa Martinelli, Suzanne Flon

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