“No trespassing” diceva il cancello più importante della storia del cinema: non oltrepassare. Eppure, il movimento di macchina che apriva Quarto potere di Orson Welles andava oltre, superava i cancelli, penetrava il segreto e il comando del silenzio per portarci a Xanadu, nella villa del segreto, e sentire un sussurro tra le labbra dell’uomo più potente del mondo. Nel 1941 questo era il potere del cinema: oltrepassare il confine del visibile e del visto, produrre un’immagine nuova laddove l’immagine non c’era, o meglio, laddove invece c’era testo, scritta, segno di una legge dello status quo di punitiva, congelata letteralità.
Ecco invece un movimento, un movimento di macchina, un pensiero altro, la sfida per produrre qualcosa di diverso dall’invisibile, o meglio, la sfida per produrre un nuovo mondo rispetto alla realtà. Uno sforzo immaginativo, in altre parole, per pensare un’alternativa ai rapporti di forza vigenti, una nuova configurazione delle relazioni tra le classi, tra i poteri, tra le forze dell’Occidente o semplicemente quelle della produzione cinematografica, con le regole impositive del capitale industriale e le sue leggi senza immaginazione.
Cinquant’anni dopo, nel 1994, Tim Burton apre Ed Wood con lo stesso movimento di macchina, lo sfondamento prospettico di una proprietà privata, di una casa, di un segreto forse dimenticato. Tutto è cambiato però: nessun cartello nega la possibilità della vista, il mausoleo inaccessibile è una catapecchia abbandonata, e invece di un uomo morente nel letto ecco un uomo già morto che apre una tomba e invita a profanare la memoria di altre.
È già dai primi secondi un esercizio di cinema oltre il cinema e le sue possibilità culturali, un esercizio postmortem a riflettere, a ripiegare sul già visto, già dato, già scoperto, come se l’unica possibilità di una scrittura cinematografica non fosse più appunto una scrittura di un nuovo visibile ma ormai una lettura sepolcrale. Quello allestito da Burton è dall’inizio uno spettacolo museale che paga il prezzo del postmodernismo (con i suoi movimenti sul posto, con le sue inerti spirali del pensiero) pur di recuperare sintagmi, sintassi e forme perdute, rimpastarle di nuovo tra bianco e nero, tra luce e ombra, tra vero e falso, fuori dai virgolettati della storiografia ufficiale.
Non è un altro Quarto potere, non potrebbe esserlo, ne è al massimo un ribaltamento meta, assurdo e sformato, che sostituisce al grande magnate (Kane) e al suo marionettista (Welles) un ambizioso uomo d’immaginazione (Wood) e un suo ammiratore (Burton), in un gioco di specchi e doppi ingigantito dall’autoironia. O meglio, dal ricordo. Lo si capisce nel finale, quando per presentare al mondo l’esito della propria immaginazione, l’ormai di culto Plan 9 from Outer Space, Ed Wood è vestito, inscenato, con un bianco tuxedo wellesiano troppo largo per non suggerire un senso caricaturale ma abbastanza abbagliante da ispirare un moto di rispetto.
Nella penombra del cinema intorno a lui, sugli spalti e nei palchetti una serie di volti del passato rivive proprio tra l’estremo della caricatura e quello dell’affetto incondizionato, quasi apologetico. Guardano tutti sullo schermo, dove compare il più grande di loro, l’ispiratore mostruoso delle maestranze di serie b, Bela Lugosi, già deceduto dopo una lunga e nascosta dipendenza dalla morfina.
La sua immagine perduta e dimenticata brilla ancora sullo schermo, e in questo brillio, in questa strana immagine al cristallo, è facile vedere quei rimbalzi di senso, quei rintocchi di orologio nell’edificio dimenticato della storia del cinema: la nobile pena dello stesso Lugosi, gigante dell’immaginario che si intravede nelle rughe truccate di Martin Landau, e l’omaggio di Burton a Vincent Price, suo mentore scomparso, che si scopre negli occhi lucidi di Wood verso il suo maestro vampiresco.
Tagli di luce, profili nell’ombra, evocazione di un mondo perduto che respira organico e marcescente allo stesso tempo. Prima di Mank e Babylon, ecco tutto un sulfureo sottosuolo industriale riesumato da uno sguardo ambiguo, commosso ma anche implacabile, sia critico verso un’industria descritta come priva di immaginazione sia indulgente nei confronti dello stesso spazio industriale, in fondo necessario per la propria sopravvivenza.
Sguardo, quello di Burton, dotato di un’apertura alare (mentre il sequel di Beetlejuice apre la Mostra del Cinema di Venezia) ormai totalmente compressa, ma trent’anni fa almeno pari a quello della ritardataria nottola di Minerva. Come esplicita, mettendo in figurazione plastica, l’ultimo volo della macchina da presa sulla piana di Los Angeles, evocata nella forma di un diorama, di un piccolo plastico con cui giocare per chiamare gli spiriti e al massimo ri-evocare le immagini.
Il film
Ed Wood
Biografico - USA 1995 - durata 127’
Titolo originale: Ed Wood
Regia: Tim Burton
Con Johnny Depp, Martin Landau, Sarah Jessica Parker, Patricia Arquette, Bill Murray, Jeffrey Jones
in streaming: su Disney Plus
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