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Cento anni fa nasceva Jules Dassin
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Proprio in questi giorni Jules Dassin che era nato in America a Middleton il 18 dicembre del 1911, se fosse ancora vivo, avrebbe compiuto cento anni: ci è arrivato vicinissimo poichè è mancato appena tre anni fa (ad Atene, il 31 marzo del 2008) ma credo che valga ugualmente la pena di celebrare questo “anniversario” di un regista che potremmo considerare “cittadino del mondo”, perché se anche la sua vena artistica e ispirativa si era abbastanza appannata nella fase conclusiva della sua carriera (il suo canto del cigno risale più o meno al 1980) è stato comunque un nome importante come uomo e come regista (umanamente e politicamente), autore straordinario di una breve stagione ormai lontana che ci ha regalato alcuni titoli fondamentali nella storia del cinema e che ha contribuito in  maniera determinante  alla rinascita del genere noir nell’ultimo dopoguerra, e vivificato di una rinnovata luce il polar francese con l’indimenticabile exploit di Rififi.

 

Un cineasta dalle molteplici nazionalità in ogni caso (per questo l’ho definito “cittadino del mondo”).

Nacque infatti in una piccola città del Connecticut  da una umile famiglia di migranti ebrei di origini russe (suo padre faceva il barbiere) che si trasferì ben presto a New York, nel Bronx, dove Dassin  frequentò le scuole superiori. Subito interessato all’espressione artistica, cominciò giovanissimo a muovere i primi passi come attore nel teatro yddish (fece parte della compagnia ARTEF) che – come ci ricorda Wilkipedia – era diffusissimo e popolare nella New York del primo novecento.

Scoprì ben presto però di avere più talento come regista che come attore, anche se la strada per arrivare al successo in questa nuova veste, fu all’inizio abbastanza perigliosa, e dovette arrabattarsi parecchio per campare, soprattutto durante la grande depressione del ’29, quando si arrangiò - per sopravvivere -  scrivendo molti adattamenti di opere teatrali per la radio.

Arrivò ad Hollywood solo agli inizi degli anni ’40, ma provò subito ad entrare dalla porta principale nella fiorente industria cinematografica, e poter così portare  a compimento il suo ambizioso sogno (uno dei suoi primi impegni e certamente quello più significativo e importante, fu la collaborazione con Alfred Hitchcock., in qualità di aiuto regista, sul set di “Mr. And Mrs. Smith”).

Decisamente “libertario” nell’ideologia progressista, seguì in diretta gli effetti sugli strati più deboli della popolazione della Grande Crisi seguita al crollo di Wall Street senza fare troppi sconti al sistema (chissà come avrebbe reagito a ciò che di altrettanto apocalittico sta accadendo adesso in Grecia, sua ultima patria d’adozione, se fosse stato ancora vivo e avesse potuto far sentire la sua voce).

Il suo impegno e soprattutto il suo spirito critico verso l’establishment, lo portarono così ad aderire ideologicamente, e alla fine ad iscriversi al Partito Comunista per tentare di contribuire anche con il suo apporto, a cercare una via concreta di riscatto alle condizioni umilianti imposte ai suoi connazionali da quella debacle economica e produttiva. Come è ormai risaputo, fu proprio questo slancio giovanile che, unitamente alla sua idea di cinema di quegli anni, dura, realistica e per niente accomodante (tutt’altro che ossequiente al “sistema” hollywoodiano) contribuì a farlo “incappare” inevitabilmente nelle maglie repressive del maccartismo che lo confinarono nell’ormai famigerata, deprecabilissima “lista nera” che non potrà mai essere sufficientemente vituperata.

Per chi non ritrattava vere o presunte affiliazioni di sinistra, per chi non si piegava a fare il delatore facendo i nomi di altri presunti “antiamericani”, l’unica via di scampo alla disoccupazione, se non addirittura alla prigione, era l’esilio volontario, sorte che  inesorabilmente toccò anche all’indomito Dassin (e che probabilmente  ebbe una importanza notevole nella successiva evoluzione della sua carriera che solo a tratti avrebbe ritrovato la forza delle origini).

Ma andiamo per ordine e torniamo a parlare del suo cinema, che nella primissima fase non ha particolari segni distintivi.  Niente insomma che potesse far prevedere quelli che furono poi i successivi sviluppi in positivo della sua attività di regista.

La M.G.M. gli diede comunque subito fiducia, e già nel 1941 lo fece esordire con una pellicola di genere horror tratta da un racconto di Edgar Allan Poe (Il cuore rivelatore), a cui seguì una lunga serie di titoli cha spaziavano fra le case di produzione i generi, e che potrei definire di quelle senza infamia e senza lode (Nazi Agent, il film di propaganda bellica La grande fiamma e The Affair of Martha, tutti del 1942; Lo spettro di Canterville da Wilde con un istrionico Laughton e poco altro del 1944; Una lettera per Eva del 1945 e La taverna dei quattro venti del 1946).

Sarà il 1947 però l’anno che vide esplodere il suo talento che lo impose a pubblico e critica grazie a un film serrato girato interamente nel microcosmo asfittico e violento di una prigione di massima sicurezza, dove si contrappongono ed entrano in collisione, il sadismo dei carcerieri e l’ansia di fuga dei condannati costretti a sopravvivere in un inferno che non consente alcuna riabilitazione.

Mi riferisco a:

 

Forza bruta (1947)

di Jules Dassin con Burt Lancaster, Hume Cronyn, Charles Bickford, Yvonne De Carlo

 

Forza Bruta (Brute force)

entrato negli annali della storia  del cinema carcerario come uno dei più significativi e importanti di ogni epoca (Questi cancelli si aprono solo tre volte: quando entri, quando hai finito di scontare la pena o quando sei morto).

Sarà grazie all’intuito di un coraggioso produttore indipendente, Mark Hellinger, che il regista riuscirà a fare il grande balzo e ad esprimersi finalmente in piena autonomia, lasciando alle proprie spalle gli anni della scialba gavetta che potremmo considerare circoscritta dentro l’oscuro circuito della “serie B”.

L’intreccio di vicende private (i ricordi, l’esistenza fuori dal carcere) con la fortissima oppressione carceraria quasi claustrofobica, consentirà al regista, senza mai farlo cadere in facili sentimentalismi grazie a uno sguardo particolarmente crudo sul reale, di proiettare il problema  della violenza (non solo il male individuale, si badi bene, ma anche quello collettivo, della società e delle istituzioni che è ben più profondo e devastante) sullo sfondo di una nazione scossa dai postumi di una guerra appena terminata, e di riverberarlo in essa. Un film dunque capace di esprimere una denuncia politica piuttosto esplicita, ma al tempo stesso anche una rappresentazione enfaticamente tormentata del corpo (Renato Venturelli nel suo saggio  L’età del noir, scriverà a tal riguardo che in un film come “Forza Bruta” la morale politica passa attraverso l’uso di un sadismo esasperato nei confronti dei detenuti e dove il finale vedrà Lancaster ergersi in tutto il suo atletismo da Spartacus, per sollevare il corpo minuto del direttore nazisteggiante Hume Cronyn dall’alto di una torre (…) con una rivolta finale dei detenuti che sembra un invito alla ribellione delle masse oppresse).

Primo dei quattro titoli che fra il 1947 e il 1950 definiranno il particolare contributo del regista al genere noir, è quasi un pungo nello stomaco per la sua brutalità esplicita. All’ottimo risultato drammatico, oltre all’asciutta  mano di Dassin concorrono naturalmente anche la sceneggiatura di Richard Brooks (che tre anni dopo esordirà nella regia), la bellissima colonna sonora di Miklòs Ròsza, il contrastato bianco e nero della fotografia di William Daniels e l’interpretazione di un vigoroso Burt Lancaster e un altrettanto odioso Hume Cronyn.

Ancora più importante l’esito che nel 1948 riuscirà ad ottenere con:

 

La città nuda (1948)

di Jules Dassin con Barry Fitzgerald, Don Taylor, Dorothy Hart

 

La città nuda (Naked City)

che ha avuto principalmente il merito di portare il cinema direttamente per le strade e fuori dalle ricostruzioni degli studios (“ ci sono otto milioni di storie nella città nuda di New York, questa è una di quelle”) , e che fece parlare a suo tempo di un esempio di neorealismo americano sulla scia del modello italiano (il riferimento era soprattutto a Roma città aperta di Rossellini):“un magnifico caleidoscopio realistico di una metropoli in azione, una storia incisiva e spudorata del Westside e dell’Estside, di Broadway e della sopraelevata, della Fifth Avenue e dei bambini che giocano per strada, (…) e del misterioso assassinio di una pupa bionda in un appartamento dell’Upper Westiside”, come ebbe modo di scrivere a suo tempo una rivista prestigiosa come Variety.

E il film vanta infatti al suo attivo sequenze straordinariamente emozionanti come l’inseguimento finale accelerato per le vie e il traffico di Manhattan che si concluderà tragicamente sulla torre più alta del Williamsburg  Bridge, nell’East Side, positiva conclusione di un’indagine poliziesca che non risolve però il nodo centrale del valore della vita umana.

Il bianco e nero di Williams Daniels che fu premiato con l’Oscar, è ancora una vota straordinario, nitido e privo di effetti come il tocco del regista, perfetto per collocare l’opera in un contesto che garantisce insieme verità e suggestione, così come la regia di Dassin precisa, disincantata, senza sbavature riesce a mettere a fuoco con assoluto realismo anche sociologico, un’indagine sulla realtà degradata di un difficile dopoguerra, nonostante le imposizioni censorie che gli impedirono di dare proprio alla dimensione documentaria che pure rimane notevole, il respiro preponderante che doveva avere nella visione originaria, finalizzata principalmente a denunciare attraverso l’inchiesta poliziesca, le ingiustizie sociali, la miseria e le sperequazioni economiche presenti nella realtà americana postbellica.

 

I corsari della strada (1949)

di Jules Dassin con Richard Conte, Valentina Cortese, Lee J. Cobb, Barbara Lawrence

 

Seguirà, nel 1948, I corsari della strada (un progetto di minore ambizione che Dassin accettò di girare per la Fox dopo aver addirittura pensato di lasciare il cinema, disgustato dai tagli apportati a “La città nuda”, come ci ricorda ancora Venturelli) dove ancora una volta è soprattutto l’ambientazione ad essere importante.

Sullo sfondo del brulicante mercato ortofrutticolo di San Francisco,  anche questo titolo mantiene inalterata l’implacabile morale che condanna un universo dominato dal denaro e dalla corruzione. La storia è quella di un giovane camionista che si rivolta contro le prepotenze della locale camorra dei trasporti  (secondo Giovanni Maria Rossi un’opera che Rosi deve aver tenuto in giusto conto nel momento in cui si apprestò a girare La sfida) e dove la scena dell’inseguimento del camion senza freni è entrata di prepotenza fra quelle da annoverare nelle antologie cinematografiche.

 

I trafficanti della notte (1950)

di Jules Dassin con Richard Widmark, Gene Tierney, Googie Withers, Hugh Marlowe

 

L’ultimo titolo della tetralogia, I trafficanti della notte del 1950, fu girato sempre per conto della Fox, ma in Inghilterra però, poiché  la caccia alle streghe aveva già fatto sentire i suoi effetti devastanti, ed era conseguentemente molto meglio tenere lontano dalla natia patria un regista “scomodo” come Dassin (fu Edward Dmytryk a fare il suo nome e a chiamare il regista direttamente in causa  davanti alla commissione d’inchiesta sulle attività antiamericane: Dassin non rinnegò il suo passato, né fece altrettanta delazione per mitigare un poco la sua posizione. Si limitò semplicemente  a confermare che negli anni ‘30 era stato effettivamente un sostenitore del Partito Comunista, ma che aveva poi abbandonato la militanza fino dai tempi degli accordi fra Stalin e Hitler che avevano portato alla spartizione della Polonia, il che non gli valse alcuna attenuante, ma contribuì invece a determinare una inevitabile condanna e la conseguente necessità  di andarsene definitivamente in esilio.

Film particolarmente contraddittorio (ma di straordinario impatto), I trafficanti della notte  è ugualmente ambientato in autentici ambienti londinesi, anche se il risultato finale sembra quasi voler contraddire le premesse realistiche perché se i luoghi sono veri, Dassin costruisce poi il racconto come se si trattasse di un viaggio in un mondo allucinato e deformato, tanto da rappresentare davvero una delle vette assolute del genere noir, non solo per i caratteri del protagonista (un perdente dominato dal destino) ma anche e soprattutto per quei contrasti “formali” a cui accennavo sopra che ci restituiscono una “particolarissima”, inusuale descrizione di una Londra calata nell’ombra e nella bruma che contribuisce a far diventare l’opera probabilmente il capolavoro assoluto del regista.

Il suo espatrio in Europa inseguito dall’ostracismo delle grandi case di produzione che gli impedirono a lungo di lavorare (il governo americano aveva minacciato i produttori europei di praticare un embargo sui film prodotti in Europa  realizzati con il contributo di personaggi che il maccartismo aveva bollato come simpatizzanti comunisti) lasciandolo per molti anni disoccupato, lo ridussero in gravissime ristrettezze economiche.

Risorse alla grande in Francia nel 1955 con:

 

Rififi (1954)

di Jules Dassin con Jean Servais, Robert Manuel, Carl Möhner, Magali Noël

 

Rififi

fondamentale titolo del filone “polar”, per il quale Truffaut scrisse che “da uno dei peggiori libri gialli  che abbia mai letto – “Du rififi chez les hommes” di Auguste le Breton, Jules Dassin ha fatto il noir più bello che abbia mai visto”.

Fotografato in un bianco e un grigio straordinari nei luoghi reali di una insolita Parigi invernale, ha una sequenza centrale – quella della rapina  - di eccezionale consistenza e abilità  di costruzione (che ha qualche debito di riconoscenza  verso Huston  e il suo Giungla d’asfalto) e che si conferma ancora oggi davvero notevole per asciuttezza realistica, tutta girata senza dialoghi e in una corrispondenza degli eventi quasi temporale (un film che come ben sappiamo, rappresenterà la principale fonte ispirativa anche per I soliti ignoti di Monicelli).

 

Ecco, potremmo finire qui il racconto e la celebrazione, perché artisticamente parlando la sua entusiasmante vicenda di Autore, si arena proprio a questo punto, non la sua vita però e nemmeno la sua attività (soprattutto politica), con il suo cinema che comincerà comunque a dimostrarsi  instabile e virerà più volte pericolosamente verso il commerciale o il non “ispirato” e lo porterà a girare (errabondo per l’Europa, fino a trovare un’ultima e definitiva patria nella Grecia), opere che non reggono assolutamente il confronto (purtroppo) con i suoi capolavori:  se in Colui che deve morire rimane per lo meno l’ambizione e l’impegno di voler realizzare un grande affresco sociale, il successivo La legge mostra invece limiti evidenti e incontrovertibili (secondo il Morandini, è il film che ha ereditato tutti i difetti e nessuna delle qualità del regista fino a farne un’opera informe , goffa e verbosa).

Da segnalare semmai il fatto che è proprio questa la pellicola che fornisce l’occasione per il suo primo incontro con Melina Mercouri, che diventerà poi sua compagna e moglie, oltre che sua indiscussa Musa ispiratrice di quasi tutto il successivo percorso più ondivago e cruciale, visto che gireranno insieme almeno sette titoli.

 

Mai di domenica (1960)

di Jules Dassin con Melina Mercouri, Jules Dassin, George Foundas, Titos Vandos

 

I risultati più cospicui del sodalizio sono da ricercare soprattutto nello scanzonato Mai di domenica del 1960 (premio alla Mercouri a Cannes e Oscar alla  migliore canzone - “I ragazzi del Pireo”  - due circostanze che contribuirono a dare al film una popolarità mondiale ben al di là del suo valore effettivo), cui seguirono una discutibilissima (per qualcuno “ragguardevole”, ma non per me, che la trovo melodrammatica e bolsa e soprattutto insopportabilmente “datata” ) rilettura moderna della Fedra (da Racine e Euripide)

 

Fedra (1962)

di Jules Dassin con Melina Mercouri, Anthony Perkins, Raf Vallone

 

e il celeberrimo Topkapi (1964) forse il suo più grande successo commerciale, certamente il suo film più spettacolare e acclamato, nel quale il regista “tenta” di riproporre in chiave umoristica le atmosfere di Rifili.

 

Topkapi (1964)

di Jules Dassin con Melina Mercouri, Peter Ustinov, Maximilian Schell

 

Ne esce fuori una pellicola  solo in parte apprezzabile anche se godibile, che gioca le sue carte migliori sui dialoghi e le differenze linguistiche dei protagonisti utilizzate per ottenere originali effetti comici e di suspense.

 

Tradimento (1968)

di Jules Dassin con Raymond St.Jacques, Ruby Dee, Julian Mayfield

 

Se si esclude il parziale recupero di Tradimento (1968) per girare il quale dopo oltre vent’anni    Dassin tornerà a calcare la terra natia (un film nel quale il regista riesce “miracolosamente” a recuperare un stile secco e documentaristico che ricorda molto da vicino il suo periodo aureo, e  soprattutto a mantenere lontano il facile manicheismo di tanto cinema pseudopolitico), e forse anche la più ardua e tormentata prova del tardivo Dream of Passion (1978) con una ancora grandissima Mercouri/Medea,  il resto (Alle 10,30 du una sera d’estate del 1966  tratto dal romanzo della Duras, tutt’altro che nelle corde di Dassin;  Hamilchama al hashalom del 1968; Promessa all’alba del 1970; I dokimi del 1974 e Quei due del 1980) è silenzio o quasi.

 

Se non fosse stato per la strenua lotta oppositiva portata avanti dal regista insieme alla Mercouri (deceduta nel 1994),contro il regime dei colonnelli che avevano preso il potere con un golpe militare nel 1967, probabilmente ne avremmo perso progressivamente le tracce visto il pallido epilogo senile ma fortunatamente almeno quella fiamma ideologica in lui è rimasta accesa fino alla fine..

Alla sua morte,  comunque (nel 2008 come già detto) il primo ministro greco, Karamanlis, allora in carica, ne celebrò ufficialmente la figura con queste parole : “La Grecia piange la perdita di un essere di rara umanità. Un artista insigne, un vero amico. La sua passione, la sua inesauribile energia creativa, il suo spirito combattivo e la sua nobiltà, rimarranno per sempre nella nostra memoria”.

Noi, nel centenario della nascita , possiamo invece ricordarlo soprattutto per quella manciata di opere  realizzate in un’epoca lontana che l’hanno fatto assoluto protagonista di un genere fra il noir e il polar e lo hanno reso comunque ”immortale” fra gli immortali.

 

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