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Easy Fish e Rumble Rider ovvero quando la New Hollywood montò in sella a una moto in cerca di libertà (im)possibili.
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“Lo sai? Una volta questo era proprio un gran bel paese, e non riesco a capire quello che gli è successo.”

“Beh, è che tutti hanno paura, ecco cos'è successo...”

“Sì, ma non hanno paura di voi. Hanno paura di quello che voi rappresentate.”

“Ma quando? Per loro, noi siamo solo della gente che ha bisogno di tagliarsi i capelli.”

“No. Quello che voi rappresentate per loro è la libertà.”

(Jack Nicholson e Dannis “Billy” Hopper in Easy Rider, 1969)

 

“Vedi, avrei voluto essere il fratello che ti aspettavi, ma non posso essere quello che voglio, come non puoi tu. Senti, senti: voglio portare i pesci nel fiume e dopo voglio che tu faccia una cosa per me, ok? […] voglio che tu prenda la motocicletta, e voglio che tu vada via. Voglio che tu vada dritto fino all'oceano. Voglio che tu segua il fiume fino all'oceano. Ok?”

“Tu vieni con me?”

“No.”

(Mickey “quello della moto” Rourke e Matt “Rusty” Dillon in Rumble Fish, 1983)

 

Coppola, realizzando Rumble Fish (in Italia meglio noto come Rusty il selvaggio), sembra aver voluto omaggiare il cinema tedesco degli anni venti e (secondo alcuni) ?jzenštejn. Il Morandini tira in ballo Welles, in relazione ai barocchismi espressionistici sparsi un po' ovunque lungo i novanta minuti del film, graziati dalla splendida e limpida fotografia in bianco e nero di Stephen Burum. Io penso a Easy Rider. Non solo perché ci sono le moto. Non solo perché c'è una coppia di protagonisti divisi da un'insanabile divergenza prospettica nei confronti della vita. Non solo perché c'è l'avvocato (in entrambe i casi un fallito ubriacone senza futuro, con alle spalle gravi problemi familiari, simboli perfetti di un'America assai poco vincente). Non solo perché c'è un'immagine della polizia (e della società in generale) quadrata, opprimente e violenta. E, infine, non solo per la presenza di Dennis Hopper, uno dei volti-simbolo della più ribelle e nevrotica e “fumata” cinematografia a stelle e strisce. La questione veramente importante è che, almeno per certi aspetti, rappresentano il “terminus a quo” e il “terminus ad quem” di un percorso forse troppo breve, quello della cosiddetta New Hollywood; il percorso di un cinema americano che finalmente riuscì a lasciarsi definitivamente alle spalle le pastoie del Codice Hays e che per alcuni anni dimostrò (sulla scia della Novelle Vague) come anche in America gli autori potessero contare più dei grandi produttori o delle grandi case di distribuzione (aspetto, questo, – al di là della retorica romantica e della collocazione geografica – piuttosto controverso, ahimè, poiché visti gli alti costi del cinema, l'importanza dei soldi è sempre fuori discussione, come anche Sokurov ci insegna, vista l'identità a dir poco controversa del finanziatore di Faust).

In realtà la cronologia ufficiale fa terminare la New Hollywood con uno schianto avvenuto tre anni prima, nel 1980, contro I Cancelli del Cielo del grande (e sfortunato) Cimino. Ma al di la delle date, sempre relative e opinabili quando si parla di periodi storici o movimenti culturali, ciò che conta è il concetto. L'idea. E in questo caso bisogna ammettere che il concetto è uno dei più forti, in ambito narrativo (e non solo); anzi, un vero archetipo: il viaggio. Quello che intendo dire, è che il viaggio iniziato con Easy Rider nel '69 verrà terminato quattordici anni dopo, nell'83, da Rumble fish. L'uno completa l'altro. Rusty, benché immerso in una luce priva di colori e speranze, avrà la forza di portare a termine quel cammino, e lo farà non più accompagnato dalle note del rock sovversivo dei magici e terribili sixties (The Band, Steppenwolf, Byrds, Hendrix... ), ma dai ritmi sincopati, nevrotici e spiazzanti di Stewart Copeland, batterista dei Police e autore, in questo caso, di una colonna sonora a dir poco unica, realizzata con l'ausilio del musync, un software in grado di modificare il tempo delle composizioni e sincronizzarlo alla perfezione con il ritmo dell'azione nel film. La canzone intitolata “Dont box me in” (composta insieme a Stan Ridgway, cantante/leader dei Wall Of Vodoo) riscosse anche un certo successo radiofonico.

Poco fa ho passato in rassegna quelli che a mio parere sono alcuni dei punti in comune fra le due opere. Ma ancora più rilevanti sono le differenze, tanto da essere loro, in fondo, a creare l'autentico legame. Nel film girato da Hopper (ispirato ad alcune pellicole di Corman, ad esempio The Wild angels, e soprattutto a Il Sorpasso di Dino Risi) a muoversi sono i chopper: moto lanciate come cavalli di John Ford attraverso immensi e stupendi paesaggi, rivolte però verso Est, in un percorso così “anti-western” da diventarne contorta e ineluttabile celebrazione – cosa peraltro evidente anche nei nomi dei due protagonisti: Billy (come il bandito “Billy the kid”) e Wyatt (come Wyatt Earp, altro famoso personaggio della mitologia western) –. Nel film di Coppola, invece, a muoversi sono in primo luogo le nuvole (suggestive, rotolanti, inquadrate direttamente o riflesse nei vetri di un bar), e con loro il tempo (che fugge più rapidamente di quanto un ragazzo possa rendersene conto, come afferma Bennie il barista, interpretato da Tom Waits, in un grottesco quanto delizioso monologo), i sogni e i deliri di una società allo sbando, in gran parte già persa, irrecuperabile. Se nella prima opera il viaggio è mostrato (e autenticamente vissuto, tanto che il buon Dennis, alla fine del lavoro, si ritrovò con ben trentadue ore (!) di materiale girato durante i vari spostamenti, e gli occorrerà più di un anno per montare l'oretta e mezza di Easy Rider), nella seconda è solo “narrato” (come nel caso della misteriosa partenza del fratello di Rusty) o saltato a piè pari per mostrarne immediatamente la conclusione (come quello di Rusty stesso, alla fine del film). Intendiamoci, i personaggi di Rumble Fish sembrano muoversi parecchio, fare sempre un gran casino (incalzati e sostenuti dalla visionarietà sonora di Copeland), ma in realtà sono fermi. Pietrificati. Quasi geneticamente incapaci di abbandonare una soffocante Tulsa/acquario dove molti di loro sono nati e probabilmente moriranno, scannandosi a vicenda come i pesci tuono del titolo originale (le uniche “entità a colori” di tutta la pellicola). Queste differenze ci parlano di una prospettiva mutata. Niente più ideali. Niente più discorsi sul valore della terra o sul coraggio dell'Alternativa (il rock, le comuni, l'amore libero... ) o sull'illegalità vista come possibile (preferibile?) scelta ad una presunta legalità bigotta, violenta e reazionaria. Non c'è pressoché più nulla di quell'aria, di quell'atmosfera. L'unica cosa che si salva e ciò che Ugo Casiraghi – in un breve opuscolo dedicato al film del '69 nell'ambito di una collana del giornale L'Unità – definisce (felicemente) “il senso naturale della libertà”; quasi affogata, però, nella melma di una gioventù inquieta, angosciata, in attesa di tutto e di nulla, persa (e preda) di una nichilistica etica da “pseudo guerrieri della strada”, fatta di bande, risse, accoltellate, orgiette al lago, e su tutto lo spettro di una droga, l'eroina, del tutto priva delle velleità spirituali della marijuana o dell'acido lisergico. Una gioventù involuta, chiusa in sé stessa, molto vicina ai nostri tempi grigi.

In questo contesto si muovono Rusty, interpretato da un Matt Dillon neanche ventenne ma già talentuoso, e suo fratello(“quello della moto”), un Mickey Rourke mai così liquido e sfuggente, alle prese con uno dei suoi ruoli migliori, insieme al wrestler imbolsito di Aronofsky. I due personaggi sono le due facce della stessa medaglia. Da una parte quello che ha smesso di essere bambino a cinque anni e che non vede più i colori, dall'altra l'ingenuo sempliciotto (poiché tale è, malgrado l'aria da “duro”) perso ancora dietro a idoli e miraggi privi di valore o senso (in questo caso le “mitiche” bande del passato, l'onore, il rude cameratismo tra amici... ). Rusty, nel corso della storia, viene progressivamente messo di fronte alla realtà dei fatti, alla vanità dei suoi orizzonti. In una bellissima scena ambientata tra i piloni del ponte che attraversa il fiume (dovrebbe trattarsi dell'Arkansas River), si svolge un dialogo di particolare rilevanza, al riguardo. Poche ore prima Rusty e il suo amico-nerd Steven sono stati pestati da un paio di balordi, e solo l'intervento/salvataggio del personaggio di Mickey Rourke ha impedito il peggio:

 

Steven (rivolto a Rusty): “stavolta ti ci porto in ospedale, giuro.”

Rusty: “Una volta, quando c'erano le risse vere...”

Steven: “Oh ma la pianti con questa storia? […] Tu e le tue bande! Stronzate, Rusty James... non erano niente di quello che pensi... una massa di idioti che si ammazzavano […] - rivolgendosi a “quello della moto” - Su diglielo... diglielo tu.”

Quello della moto (dopo una lunga pausa di silenzio): “... non erano niente.”

 

Uno dei (miseri) miti di Rusty viene così annichilito da chi più di tutto e tutti lo incarnava. Il fratello, infatti, sembra essere molto cambiato da quando ha fatto ritorno dal suo viaggio (in realtà una vera e propria fuga) che l'ha portato fino in California (terra dalle mille attrattive, se vista attraverso gli occhi dell'inquieta gioventù di provincia). Sia il fratello che il padre (l'avvocato impersonato dal mitico Dennis Hopper), in momenti diversi, lo interrogano sull'esito del suo peregrinare, ma lui risponde sempre in modo vago, allusivo. Questo scambio di battute tra i due fratelli è particolarmente indicativo, al riguardo:

 

Rusty: “Dov'eri finito?”

Quello della moto: “Sono stato in California.”

R.: “[...] Cazzo... la California è forte.”

Q.d.m.: “Tu come t'immagini che sia?”

R.: “Il genere delle cazzate che si vedono nei film... bionde a pacchi da dieci, e i Beach Boys, le palme... e l'oceano, no? Com'è l'oceano?”

Q.d.m.: ”No... non ho visto l'oceano... no.”

R.: “No?”

Q.d.m.: “No... c'era la California, in mezzo.”

 

Rumble Fish, oltre che da frequenti rimandi allo scorrere del tempo (numerosi gli orologi che fanno la loro comparsa in scena), è percorso da svariati riferimenti (sia verbali che “estetici”) all'acqua (altro elemento che, come l'acqua, scorre!), simbolicamente identificata con la Libertà (metafora, questa, che ha la forza della semplicità). “Quello della moto” è un alienato, per sua stessa ammissione, da molti scambiato per pazzo, ma la sua è solo una “sensibilità diversa”, come afferma il padre in un toccante discorso recitato magnificamente da Hopper. La stessa febbrile sensibilità che spinse la madre – anni prima – a fuggire di casa, abbandonando tutta la famiglia. Una sensibilità che ti obbliga a vedere il mondo con occhi diversi. Occhi che non possono più distinguere i colori, fatta eccezione per le sgargianti tonalità dei pesci tuono tenuti nell'acquario di un locale negozio di animali. Occhi che vorrebbero, un giorno, guardare in faccia la libertà, ma che non saranno mai più in grado di farlo. Occhi ormai persi, irrecuperabili. Che non vedono l'oceano neppure se si trovano in California. Ma se lo sguardo è fregato, il desiderio c'è ancora, almeno per i pesci tuono del suo paese. Almeno per quel fratello minore che non è come lui, non può esserlo (per sua fortuna), benché ancora vittima (in questo sì, un po' come lui) di una volontà impossibile (nel suo caso di emulazione), condannata alla frustrazione.

 

Rusty (rivolto al padre): “Volevo farti una domanda […] nostra madre è suonata, o roba così?”

Padre: “No che non lo è […] ogni tanto qualcuno vede il mondo diverso dalla gente comune, ma non vuol dire che è matto. Capisci? Una diversa, più acuta, percezione delle cose non significa follia... benché a volte possa capitare che questa percezione porti a follia.”

R.: “Devi dire le cose normali... io di 'ste cose non capisco niente. – rivolto al fratello – tu hai capito?”

 

Il fratello capiva benissimo le parole del padre, poiché lui stesso era simile alla madre, anche lui “kurtzianamente” sul filo del rasoio a flirtare con la pazzia, condannato a percepire il vuoto che lo circondava, la morte di qualsiasi forma di “sogno americano”, lo stesso sogno terminato in fiamme alla fine di Easy Rider, freddato dai colpi di shotgun di un buzzurro qualunque a bordo di un pick-up qualunque. Cronaca di una fine annunciata fin dalle premesse della storia americana. Fotografia di una bruciante consapevolezza, come si può capire bene da queste parole di Dennis Hopper stesso (riguardo al suo film): “Viviamo in questa epoca e io cerco di fare dei film sulla nostra epoca […] Mi piacerebbe realizzare Nana, di Zola. Oppure mi sentirei di portare sullo schermo La Divina Commedia. Solo l'Inferno, però. D'altra parte tutti i miei film finiscono nel fuoco.” Molta dannazione e assai poca speranza. Non esiste un'alterità in grado di rappresentare un'autentica alternativa alla società. Sono solo miraggi, illusioni che gli anni sessanta ha coltivato e creduto (almeno all'inizio) di poter concretizzare. Un inganno che quella generazione (quella della Summer Of Love) ha pagato con la più cocente delle delusioni (significativo, per questo aspetto della questione, il bel monologo introspettivo di Hunter Thompson – interpretato da Johnny Depp – verso la fine di Paura e delirio a Las Vegas, di Terry Gillian). Wyatt “Capitan America”, in una scena allucinata fortemente voluta dal regista Hopper (girata in 16mm e poi allargata), non può fare altro (durante il suo trip) che abbracciare una statua femminile nel cimitero di New Orleans e chiedere alla madre perché l'ha abbandonato (drammatico riferimento ad una reale tragedia personale dell'attore/produttore Peter Fonda, la cui madre si suicidò tagliandosi la gola), gesto che per Dennis Hopper rappresenta simbolicamente un'accusa nientemeno che alla statua della libertà e a tutto quello che essa rappresenta (vale a dire il suddetto “sogno americano”, del quale tutti gli americani sono in qualche modo “figli”). L'illusione è morta, l'innocenza perduta. “Siamo fregati” dirà Wyatt/Fonda poco prima del tragico epilogo, lungo il viaggio che li avrebbe dovuti portare in Florida. Ed è lo stesso che pensa “Quello della moto”, lui che pur essendo scappato non ha potuto fare altro che ritornare nella sua Tulsa/acquario, poiché ha compreso che è impossibile evadere da una gabbia che ormai è ben radicata dentro di noi.

Rumble Fish non rappresenta un superamento dialettico di questa tragica fine. Non può. Il suo svolgimento ne è parte. Il dramma è inevitabile, anzi: necessario per la catarsi (come già avevano ben intuito quei greci dei quali Rusty “non se ne fa un cazzo”). “Quello della moto” dovrà morire (ucciso da un poliziotto freddo e spietato) nel disperato tentativo di liberare nel fiume (la strada costruita da Dio) i pesci tuono, per liberare al contempo Rusty dalla sua cieca ossessione emulativa, e permettere anche a lui di seguire il fiume fino all'oceano. Solo a Rusty è concessa una simile (parziale) libertà. Solo a lui, così ingenuo e stupido da non capire un granché di ciò che lo circonda; stupidità che, tuttavia, non è del tutto negativa, poiché nel corso della storia finisce per tingersi di una purezza di spirito quasi pasoliniana (purezza che emerge – ad esempio – allorché, dopo aver scoperto il banale raggiro messo in opera da Smokey/Nicholas Cage per fregargli la ragazza, confessa al suo ex-amico – con la disarmante sincerità di un bambino – che lui, al suo posto, una carognata così non l'avrebbe mai fatta). E tale insensata spontaneità diventa (quasi) conditio sine qua non per il finale stesso del film: dopo tredici anni, il viaggio è compiuto, e ciò che ci resta negli occhi sono le sagome nette di un centauro dal cuore semplice e la sua moto, e le silhouette fluttuanti dei gabbiani a cavallo delle brezze marine, sullo sfondo di un tappeto di onde rotolanti, simili a un'immensa distesa di liquidi e inafferrabili miraggi di libertà.

Di colori (e speranze) neanche l'ombra, certo, ma (forse) non tutto è stato vano. Il tempo passa e la vita, infondo, va vissuta.

 

Anche da un punto di vista formale, i due film sembrano essere “fratelli”, tanto sono entrambi caratterizzati da un certo sperimentalismo underground, più virtuosistico e colto quello di Coppola, più caotico e improvvisato/spontaneo quello di Hopper. In Rumble Fish assistiamo a inquadrature dalle angolature esasperate e studiatissime, movimenti di camera avvolgenti, giochi di luce perfetti (che rimandano, tra l'altro, al noir), ed un uso sapiente (Wellesiano, a volte) della profondità di campo, oltre che ad una recitazione volutamente straniata e straniante. In Easy Rider, invece, è tutto più estemporaneo, fatto all'impronta, con gli attori che recitano quasi sempre sotto l'effetto di droghe, senza la benché minima traccia di uno storyboard, e con una sceneggiatura che è poco più di un pretesto per lanciarsi on the road e farsi guidare verso l'orizzonte dalle proprie idee (tanto pagava tutto Peter Fonda con la sua carta di credito). Grazie alla creatività selvaggia e furibonda di Hopper e alle capacità tecniche di un direttore della fotografia come László Kovács, il film è venuto fuori come un autentico gioiello grezzo, che (parafrasando le parole spese da Coppola riguardo al suo capolavoro Apocalypse Now) sarebbe riduttivo definire un film sulla fine degli anni sessanta, poiché È esso stesso la fine degli anni sessanta: con il suo irripetibile afflato psichedelicamente realistico (notare l'utilizzo – per molti comprimari – di non-attori presi dalla strada); e con il suo leggendario soundtrack, composto dagli stessi brani che Hopper & soci ascoltavano quando accendevano la radio o si “sparavano” un vinile, e per tali ragioni autentico commento/sonoro al loro viaggio (dove rappresentazione e realtà sfumano di continuo l'una dentro l'altra, tanto che spesso si ignora dove finisca una e cominci l'altra). Nel caso di Rumble Fish si assiste, invece, ad uno sperimentalismo opposto, volto a creare quasi sempre un senso di grottesca irrealtà, di allucinata alienazione. E questo vale sia per la recitazione (come ho già accennato prima) che per traccia musicale, con l'estraniante score di Copeland, privo di riferimenti codificabili, del tutto sospeso in una dimensione alternativa/cinematografica, al di la di ogni possibile legame ad una terra o un'epoca (entrambe superflue, entrambe inesistenti), poiché dedicato alla costante fuga del tempo in sé, quel tempo che è eterno come le nuvole, come le nuvole privo di un autentico significato che vada al di la di quello che noi gli doniamo.

Anche in questo caso, è facile constatare come siano le specificità ad imparentarli. Le volontà sottese. Il loro comune avanzare, su strade diverse, verso una meta sognata e lontana: un inconscio mare calmo ormai quasi del tutto precluso all'umanità, ma ancora in grado di affascinare e porsi come una nuova lente davanti allo sguardo dell'uomo.

 

Peter Fonda: “Bob Dylan mi chiese cosa significasse la fine del film. Non ero pronto per quella domanda. Da un lato c'è la via fatta dall'uomo. Dall'altro c'è il fiume, la via costruita da Dio. Prende una penna e scrive: il fiume scorre verso il mare. Il fiume va dove voglio andare io. Scorri, o fiume, oltre l'albero verde. Scorri, o fiume, verso il mare.

 

 

Ballad of easy rider

The river flows
It flows to the sea
Wherever that river goes
That's where I want to be
Flow river flow
Let your waters wash down
Take me from this road
To some other town

All he wanted
Was to be free
And that's the way
It turned out to be
Flow river flow
Let your waters wash down
Take me from this road
To some other town

Flow river flow
Past the shaded tree
Go river, go
Go to the sea
Flow to the sea

The river flows
It flows to the sea
Wherever that river goes
That's where I want to be
Flow river flow
Let your waters wash down
Take me from this road
To some other town.

(canzone scritta da Roger McGuinn, cantante dei The Byrds, con il contributo di Bob Dylan per il film del 1969, Easy Rider)

 

 

Don't box me in

You walk
I'll run
And follow right behind you

You call
I'll come
And I won't remember where I come from

Over there
At the end of the bar
This fish keeps swimming
In a jar

I feel
A tug on the line
Which end
Will I be on this time?

Don't box me in
Don't box me in

One day
I'll show them
Just what I'm made of

The'll be
A time
When I won't remember what I was afraid of

And I'll be swimming
In the sea
No banging on this glass
For me
My eyes saw red
When my world turned blue
So I'm leaving
Everyting that's true

And I'll jump into
A brand new skin
And then you won't be able
To box me in
Don't box me in

Don't box me in
Don't box me in
Let go!

There's a few places 'round
That I've never been
There's an ocean out there
That I gotta swim
There's a river that flows
Right past my door
I wonder...
I wonder...
What?!

And if sometimes
I can't seem to talk
You'll know this blackboard lacks
A piece of chalk

Don't box me in
I told you not to
Don't box me in

Don't box me in
Don't box me in
Let go!

(canzone scritta da Stewart Copeland e Stan Ridgway per il film del 1983, Rumble Fish)

 

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