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Stoiki Mugik!
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Non è probabilmente solo una casualità che questo film sia uscito in questi ultimi tempi, quando la questione tedesco-orientale e la guerra fredda sono oggetti messi nel soffitto di una storia “superficiale”, dove tutto tende ad essere dimenticato, tutto viene inesorabilmente coperto dal “nuovo”, dalle “Breaking News”, vere o false che esse siano.

Fra le diverse angolature da cui analizzare questo film, in effetti, ce n’è una che, a mio avviso, emerge, cristallina, pura, durissima, come la punta di diamante. Ed è l’uomo vero. L’uomo tutto d’un pezzo, l’uomo che non baratterebbe la propria dignità per tutti i tesori del mondo. Questo è un film sulla dignità, che è poi l’unica vera cosa che distingue il “vero” uomo dai suoi simili.

Ad interpretare il personaggio dell’avvocato Jim Donovan è Tom Hanks, lo stesso che ha interpretato (magistralmente) il capitano John Miller, l’ufficiale dei Rangers che riesce a salvare il soldato Ryan. Due storie vere. Due storie maledettamente simili, perché il protagonista è uno “stoiki mugik”, un uomo tutto d’un pezzo, un uomo che merita il pieno rispetto del suo presunto “nemico”.

Perché proprio ora questo film? Perché mai, come in questo tempo, è difficile mantenere la barra dritta, mantenere intatta la propria fede nei propri ideali, dare testimonianza al prossimo, ai familiari e a se stesso della propria incrollabile dignità nonostante da ogni parte vi siano pressioni, seduzioni, minacce.

Al di là delle barriere costruite da “piccoli uomini”, dei nazionalismi beceri, delle sciocche mire espansionistiche, ci sono, fortunatamente, uomini veri di qua e di là dei confini, disposti a conoscersi, frequentarsi e rispettarsi, pur nelle diverse concezioni del mondo e della vita.

 

L’aspetto più curioso del film e che Spielberg ha inteso comunicare è che, ad esclusione dei due protagonisti, ne escono tutti con le ossa rotte e che risulta chiaro per tutti gli spettatori che le sorti del mondo troppo spesso sono in mano a gente senza alcuno scrupolo, che governa con l’uso indiscriminato delle false verità, di princìpi che, pur se antichi come il mondo, ancora dettano legge nelle maggiori cancellerie dei Paesi che, invece di spendersi per assicurare la distensione, la pace e la concordia mondiali, brigano per accrescere la propria potenza a rischio dell’estinzione del genere umano.

Le figure dei due protagonisti, invece, davanti a un simile scempio, ne escono ingigantite : da un lato, la spia russa Abel che, vive in modo dignitoso la propria prigionia non collaborando ed accettando di buon grado la propria sorte, quale essa sia, consapevole dei rischi a cui si è esposto e, al tempo stesso, convinto di essere nel giusto e quindi indisponibile a barattare la propria libertà con azioni che ne minino la sua coerenza. Dall’altro, un avvocato che sceglie di difendere una spia, un “traditore” che tutti vorrebbero fosse giustiziato, tanto è acuto il clima di tensione creata dalla guerra fredda e dalla “caccia alle streghe” che in quel periodo pervade l’America. Lo difende, nonostante abbia tutti contro, nonostante le sue più intime convinzioni che si arrendono di fronte al Diritto, inalienabile e pilastro di civiltà.

 

Conoscersi, per i due protagonisti, è un percorso virtuoso verso la reciproca comprensione e il rispetto, divenuto non più neutro atteggiamento verso l’altro, ma un‘apertura mentale sincera verso chi la pensa diversamente e agisce in un modo che, sulle prime, sembra condannabile senza appello e che poi si rivela essere coerente con i propri princìpi e la propria visione del mondo.

Alla fine, la guerra fredda, pur se continuerà, è virtualmente terminata fra i due: si sono conosciuti, si sono parlati e hanno cominciato a rispettarsi. Il regalo finale di Abel Donovan ha un significato molto più importante del ritratto. Il film inizia con un autoritratto, segno di convinzione delle proprie idee e di ciò che sta facendo. Il ritratto finale è segno di stima per chi lo ha liberato, ma anche “apertura” verso un mondo che forse troppo frettolosamente si è considerato come decadente, malato e corrotto. Per converso poi, il mondo che lo riaccoglie sembra non apprezzare affatto (vedi la scena finale , in cui Abel viene fatto sedere non accanto all’autista ma sul sedile posteriore, segno questo di guai in vista) lo svolgersi degli eventi, avvelenato dal sospetto che Abel possa aver detto qualcosa che non doveva dire.

 

Il successo della missione di Donovan, del resto, non può certo far dimenticare la campagna diffamatoria nei suoi confronti mossa da un Paese intero, ubriaco di pregiudizi, gonfio di odio e di un malsano sentimento di superiorità.

La vittoria di Donovan, quindi, non è affatto la vittoria di un intero Paese, così come il ritorno di Abel, per i russi, non è affatto un trionfo ma la nascita di un sospetto, così come oggi, nonostante la guerra fredda sia ufficialmente finita, c’è più che mai la sensazione della perdita, o almeno dell’affievolimento di principi che si ritenevano incrollabili, imperituri e che tutto è possibile. E’ ancora possibile che si ritorni alla barbarie, che si parli di nazionalismo, di razze, di “lezioni” da infliggere.

Come ricordava il vecchio sopravvissuto ebreo nel film DOSSIER ODESSA (1974) di Ronald Neame, non sono i popoli ad essere malvagi ma i singoli individui. Ma i singoli individui possono portare il mondo alla distruzione. Così come anche i singoli individui possono riscattare con la loro azione e il loro pensiero questo mondo. A volte singole azioni di questi individui possono ottenere risultati insperati e cambiare alcuni orientamenti che sembravano ormai definitivamente definiti.

 

 

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