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Jake La Motta e ordinarie storie di New York
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Non si può non parlare di Jake La Motta in un sito specializzato di cinema. Non solo perché la sua vita sembra essa stessa un film, ma perché, ovviamente, è il protagonista di uno dei migliori lavori di Scorsese ( se non il migliore). Per parlare di Jake la Motta, bisogna parlare del Bronx, di Brooklyn, di Little Italy, di Mean Streets, degli italo-americani che affollavano quel quartiere, pieno di negozi (“grosserie” da Grocery), insegne scritte in italiano, barbieri, bar dove si cercava disperatamente di ricreare la terra lontana e forse perduta. E poi la chiesa, il teatro, dove si recita in italiano e poi le sfilate, le processioni, riti che venivano irrisi dall’altra comunità cattolica e cioè gli irlandesi, sempre più in lotta contro i “grease” del Bel Paese (a proposito, suggerisco di leggere AN UNLIKELY UNION:THE LOVEHATE STORY OF NEW YORK’S IRISH AND ITALIANS di Paul Moses).

Come ricorda Harvey Keitel, nel Bronx, se sei italiano e se vuoi sopravvivere, hai due strade: diventare prete o gangster. Jake La Motta, classe 1921, non diventa né uno né l’altro. Jake (il suo vero nome è Giacobbe) è un ragazzino tosto agli inizi degli anni ’30; alcuni ragazzini si divertono a provocarlo e lui, un giorno, stanco di essere preso in giro, estrae un punteruolo. A quel punto, fuggi fuggi generale; qualche giorno dopo, Jake dimentica il punteruolo e deve difendersi con i pugni. Alcuni ne riceve, ma quelli che appioppa fanno male. Forse tutto nasce da lì.

Visto che non ha l’animo del gangster né tantomeno quello del prete, la boxe diventa una prospettiva concreta. Del resto che può fare uno come lui, figlio di siciliani poveri e semianalfabeti, in una città come New York? Pochissimi riescono ad emergere, uno di questi è Fiorello La Guardia, che a base di sacrifici immensi e doti non comuni, riesce a rompere il muro di diffidenza degli americani nei confronti degli italiani. Diventa sindaco di New York nel 1934 e verrà rieletto altre due volte e a lui verrà dedicato un aeroporto. Un altro, uno dei pochi, è Joe Di Maggio, anch’egli figlio di siciliani (ma La Guardia è di origine foggiana) che firma tre anni prima il suo primo contratto con i New York Yankees che lo proietterà nel firmamento dei più grandi campioni dello sport americano per eccellenza e cioè il baseball, alla stessa grandezza, per capirci, di autentici miti come Babe Ruth e Lou Gehrig, l’orgoglio degli Yankees (vedi L’IDOLO DELLE FOLLE di Sam Wood (1942).

 

 

Era dura farsi largo agli inizi del Novecento per un italiano: arrivavano ad Ellis Island cenciosi, sporchi, ignoranti, analfabeti. Si accontentavano di briciole, vivevano in tuguri immondi stretti come sardine, disposti a tutto pur di sfamarsi e sfamare la famiglia. “Che gente è questa?” si chiedevano i locali, inorriditi nel vedere in che modo vivevano. Cominciarono a spuntare cartelli tipo: “Vietato l’ingresso ai cani e agli italiani”. Alcuni di loro però avevano un certo orgoglio e cominciavano a promuovere associazioni e sindacati per difendere i loro scarsi diritti. La faccenda di Sacco e Vanzetti, per dire, è un classico esempio per spiegare il problema. Basterebbe leggere i verbali del processo al termine del quale i due anarchici vennero messi a morte per comprendere quanti pregiudizi c’erano tra i giurati e lo stesso giudice, un vero razzista.

Certo, non si può dire che la malavita crescente di origine italiana abbia reso un buon servizio alla causa degli italiani. Nel 1931, ad esempio, Lucky Luciano, dopo essersi sbarazzato, spalleggiato da Meyer Lansky, del suo boss Mario Maranzano e ancor prima dell’altro boss Joe Masseria, dà inizio alla scalata al potere eliminando ogni possibile rivale, con la mattanza chiamata poi Vespri Siciliani.

E con Cosa Nostra, il buon Jake deve fare i conti: non è possibile farsi largo nel mondo della boxe se non sei ammanicato con i boss. Lo ammetterà anni dopo davanti alla Commissione Kefauver: per fare carriera, devi anche venderti, “combinare” incontri, giocare sporco. Per arrivare al titolo, devi far vincere loro, i boss. Nel film di Scorsese, un boss è interpretato da Frank Vincent, un ottimo caratterista italo-americano, scomparso anche lui in questi giorni. Nel film è chiarissimo che se Jake non si piega al volere di Cosa Nostra, il titolo lo vedrà solo col binocolo. A malincuore lo fa, anche se quell’episodio lo segnerà tutta la vita.

A Robert De Niro capita un giorno di leggere un libro di memorie di La Motta. Ne rimane entusiasta. Corre subito dal suo amico Martin Scorsese e glielo propone. A Martin, in quei tempi, va tutto male: affari, salute ed affetti. L’idea di Robert gli piace, però. Ma è così pessimista che gli confida che quello sarà il suo ultimo film. Intravede in quel libro materiale per farne un film epocale. Vuole fare (siamo nel 1980) sì un film sulla boxe, ma non solo. Dev’essere un film speciale, scritto in modo anticonvenzionale e girato in modo diverso. Fino ad allora c’erano stati diversi film sulla boxe, alcuni dei quali veramente straordinari, come il cult ANIMA E CORPO, di Robert Rossen, 1947, oppure STASERA HO VINTO ANCH’IO, DI Robert Wise, 1949, senza dimenticare IL COLOSSO D’ARGILLA di Mark Robson, 1956, con un Humphrey Bogart ormai malato e un soggetto ispirato al nostro Carnera.

Lo voglio diverso, soleva ripetere Scorsese. Lo voglio in bianco e nero: i grandi film citati erano rigorosamente in bianco e nero così come tutte le foto e i filmati d’epoca. Lo vuole così anche perché teme che il pubblico pensi subito a ROCKY di John Avildsen, 1976, con Stallone superstar e campione d’incassi. “Voglio che la gente sappia che cos’è veramente fare a pugni sul ring, voglio mostrare le smorfie di dolore, il pugno che si stampa sulla mascella, gli schizzi di sangue e sudore. Non voglio che il match si veda dalla parte degli spettatori, seduti a distanza. Per il copione chiama Marvin Mardik, che aveva lavorato con lui e Bob in MEAN STREETS. La sceneggiatura è molto buona, ma è scritta ispirandosi un po' a RASHOMON di Kurosawa: la storia di Jake La Motta è analizzata da diversi punti di vista. Martin affida allora il copione a Paul Schrader, un ottimo critico (il suo lavoro sul noir è ancora oggi fondamentale) ma uno sceneggiatore promettente (oltre che regista): ha scritto YAKUZA di Sydney Pollack e TAKI DRIVER, entrambi nel 1974 e AMERICAN GIGOLO di cui è anche regista, così come di BLUE COLLAR del 1978 e HARDCORE del ’79.

Schrader ne ricava una sceneggiatura chiara, diretta, fin troppo cruda, al punto che Martin teme che la censura (soprattutto per il linguaggio osceno) gli blocchi il film.

Il timore che vada tutto a rotoli gli aumenta l’ansia e la depressione. Non è un buon momento per lui, il suo NEW YORK NEW YORK è stato un fiasco colossale. Ha tutti contro: critica, botteghino, pubblico. In più soffre da tempo d’asma e solo da poco è uscito dal tunnel della droga. Allora decide di fare di questo film una specie di testamento spirituale. Vuole che ogni singola inquadratura, ogni parola, ogni dettaglio sia strettamente coerente con l’impianto che ha immaginato. Cura in eccesso ogni singolo passo. Si sfianca a furia di modificare, ripetere scene, scervellarsi per ogni più piccolo dubbio. Ad un certo momento collassa e supplica il padre di sostituirlo per girare alcune scene. Alla fine il film è finito, ma è solo una tappa. Il lavoro di post-produzione porta via una quantità di tempo inusuale, al punto di procurargli guai con i produttori Winkler e Chartoff. Fa diventare matta Thelma Schoonmaker la montatrice, così come ha fatto impazzire Michael Chapman, il direttore della fotografia. “Se deve essere il mio ultimo film – dice Martin –voglio che sia il top”.

Scrivere un film su La Motta è come seguire con una matita dei trattini già pronti. Chi è La Motta’ Chi l’ha conosciuto veramente direbbe che è sempre stato uno scavezzacollo, un attaccabrighe, uno che ce l’aveva con tutti, con un mondo che lo disprezza, con i bulletti che lo provocano, con se stesso in quanto incapace di controllarsi. Quando mette piede il primo giorno in palestra, viene guardato con sufficienza. “Ma dove crede di andare quel piccoletto?” si chiedono in molti. In effetti è un tipo tarchiatello, non alto e non particolarmente intelligente. La natura gli ha tolto un po' di cervello per compensare la forza che ha nei pugni.

Si mette subito in luce non tanto per lo stile, l’agilità, la ricchezza di movimenti ma per il coraggio e la furia che mette in ogni combattimento. Si lancia a testa bassa contro qualsiasi avversario, anche molto più potente, e comincia a menar pugni a gragnuola, uno dopo l’altro, fino a distruggere chi ha davanti. Qualcuno, in palestra, comincia a intravedere in quell’ometto qualcosa di promettente, gli insegna i movimenti basilari, i trucchi del mestiere e poi lo lancia sul ring. Tante ne prende ma tante ne dà. E comincia così a vincere e farsi notare. Nel quartiere, adesso cominciano a rispettarlo e a fare il tifo per lui. E’ l’orgoglio italiano del Bronx e di New York. Ogni combattimento vede aumentare la sua popolarità. Il suo coraggio temerario è una sorte di consolazione, compenso per tutte le umiliazioni patite da lui e dalla sua gente. Vuole spaccare la faccia a tutti, solo che ora lo pagano per questo. Pazienza se a volte la spaccano pure a lui, ma sono molte di più le vittorie delle sconfitte. Dopo essere sceso a malincuore a patti con i boss che controllano il mondo della boxe americana gli viene offerta la chance che aspettava da tempo, la sfida per il titolo mondiale dei pesi medi. E’ il 16 giugno del 1949. Il match si svolge a Detroit contro Marcel Cerdan, francese, un gran bel pugile che piace alle donne. Ottimo motivo per spaccare anche a lui la faccia. Attacca come al solito da par suo. Sempre addosso, sempre a roteare pugni, mai domo, proprio un toro, come viene chiamato nel suo quartiere. Poco cervello ma un fegato grande così. Cerdan, poveretto, si sloga un braccio già al primo round e resiste in quelle condizioni fino al decimo, quando si ritira. Adesso Jake è campione del mondo. Cerdan vuole la rivincita, fissata per dicembre dello stesso anno; ma quell’incontro non si farà mai. L’aereo che porta Cerdan in America precipita, spezzando il cuore di milioni di francesi e della sua Edith Piaf. Ci provò anche il nostro Tiberio Mitri, la tigre di Trieste, a sfidarlo l’anno dopo. Un buon pugile, Mitri (anche se un pessimo attore).

L’incontro (15 riprese) fu durissimo, ma alla fine Jake la vinse. Erano amici, ma sul ring contano solo i pugni. E’ stato scritto che Mitri non fosse al meglio perché la moglie Fulvia Franco si trovava a Hollywood sognando di diventare un’attrice famosa e lui ne era gelosissimo, e gli allenamenti non erano fatti come si doveva. Ma tant’è, anche per Jake arriva il castigamatti e cioè Ray Sugar Robinson, forse il più grande peso medio di sempre. Sostiene cinque combattimenti con lui e ne perde quattro. In uno, Jake ha preso tanti di quei pugni da non capire più nulla. Mormora a Ray “Non riuscirai a mettermi KO” e si attorciglia alle corde in modo da non cadere e attende, fra una mazzata e l’altra, il suono del gong. Ma al tappeto non ci va.

E’ una scena che Scorsese dirige in modo magistrale. De Niro è una maschera di sangue e sudore, si rivolge a Ray e gli dice che non riuscirà a metterlo giù. Ray lo guarda, sorpreso e sconcertato: chi è quel pazzo che, pur di non andare al tappeto, accetta di prendere tutte le legnate che sta per dargli? La musica tace all’improvviso, l’arena zittisce, Ray ora si staglia come un dio greco in un’aureola di schizzi di sudore e fatica: ha il braccio alzato con il pugno chiuso. Sta per sferrare un ennesimo durissimo colpo. E’ un’immagine irreale ma stupenda. E’ un pugile straordinario, Ray. Come lui, forse, solo il nostro Nino Benvenuti. Agile, elegante, statuario, un mix di stile e potenza. La fortuna di Ray è stata quella di non essersi imbattuto sulla sua strada in una specie di carro armato. Cosa che purtroppo toccò a Nino, quando affrontò Monzón, un pugile argentino, cui la natura, al posto di una mano, aveva incollato un maglio da fabbro. Anche a lui, sempre per la legge di compensazione aveva tolto un po' di cervello, cervello che invece aveva lasciato per intero al nostro Nino, the White Angel.

Per Jake inizia il doloroso declino: litigi, separazioni, botte, affari andati male. Aveva conosciuto una splendida ragazza, Vicky (interpretata da Kathy Moriarty), si era separato dalla moglie ed era andato a vivere con lei. Ma Jake aveva, tra i molti difetti, quello di essere semi paranoico, gelosissimo, fino alla follia. Per colpa di questo maledetto difetto, il povero Ianiro finì col volto spaccato, una poltiglia sanguinolenta. Vicky, malvagiamente, si era lasciata sfuggire che Ianiro aveva un bel viso. Sul ring, mai si era vista una furia così scatenata e così mirata al volto del malcapitato.

Il poco cervello e la gelosia furono causa del litigio, mai sanato, con il fratello-manager Joey (interpretato da Joe Pesci). L’interpretazione di Joe è uno spettacolo nello spettacolo. E’ ancora straordinario vederli recitare insieme, insultarsi, prendersi a botte, cazzeggiare, sproloquiare ed esprimersi come l’ultimo degli scaricatori di porto.

Scorsese girò il film in due riprese: la prima, tutta riferita alla carriera pugilistica di Jake, la seconda invece relativa al declino. In questa, Bob de Niro si sottopose a una cura ingrassante che lo fece aumentare di 30 kg e gli causò problemi di salute. M a alla fine, il film uscì come Martin voleva.

L’accoglienza fu tiepida, sia da parte della critica, sia da parte del pubblico. Però qualche critico, come Roger Ebert, si sbilanciò lodando la regia e l’interpretazione magistrale sia di De Niro sia di Pesci. Alla premiazione per gli Oscar, ottenne solo due premi, quello per la migliore interpretazione (De Niro) e quello per il miglior montaggio (Thelma Schoonmaker). La miglior regia andò a Robert Redford (per GENTE COMUNE). La casa di produzione, la United Artists, venne accusata di non avere abbastanza promosso il film, ma in quel periodo, si trovava immersa in gravi problemi finanziari, a causa del flop colossale de I CANCELLI DEL CIELO di Michael Cimino.

Solo qualche anno dopo, la critica ha giudicato il film come uno fra i dieci migliori di ogni tempo.

Jake la Motta ha avuto la soddisfazione di vedersi immortalato da un grande attore e il suo declino è stato meno amaro. Ora Jake se n’è andato e, come lui, pure Frank Vincent, due italo-americani, i cui genitori erano venuti dalle poverissime terre d’Italia per cercare fortuna in America. Come i genitori di Fiorello La Guardia, di Joe di Maggio, di Scorsese, di Joe Pesci, di Bob de Niro e tanti, tantissimi altri, magari sconosciuti, magari pure umiliati e mazziati come Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti, colpevoli solo di essere anarchici e italiani, una genìa, nelle parole del giudice che presiedette il processo, incivile e sub-umana. Il sogno americano spezzato.

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