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Un grande attore vecchio e triste
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Il suo è un viso che non può non piacere al cinema americano: sono volti di gente emigrata magari prima della Depressione, costretta a mangiare erba e fagioli, venuta su a sacrifici e umiliazioni, per poi, un dicembre del 1941, arruolarsi per andare a combattere i giapponesi.

Sono volti di gente dura, che tradiscono origini antiche come quei pazzi di irlandesi venuti a frotte attraversando l’Atlantico, per sfuggire alla Big Famine, alla carestia dovuta alla morìa di patate della metà dell’Ottocento. Vennero a frotte gli irlandesi pazzi per trovare da mangiare e finire poi per lavorare nei porti, nelle miniere (basterebbe ricordare i Molly McGuire) o nella polizia, sempre pronti a menare ed azzuffarsi, riunirsi in associazioni un po' benefiche e un po' meno, costruire chiese e dettarvi legge anche in modo non del tutto lecito (basterebbe guardare L' Assoluzione)(1981) di Ulu Grosbard, oppure buttarsi in politica o nella malavita, assicurarsi un certo potere messo poi a dura prova dalla crescente sfida loro lanciata dagli italiani, che pretendono anch’essi un posto al sole.

Nasce a Irvine (Kentucky) nel 1926, un paesino di poco più di duemila abitanti, la cui storia è appena segnata dal nome di un pioniere e dalla razzia dei Confederati nella Guerra di Secessione. Il buon Harry è sicuramente il cittadino più illustre di Irvine (anche se alcuni preferirebbero Kevin Richardson, dei Backstreet Boys o Lee Rose, allenatore di pallacanestro).

Non so quasi nulla della famiglia, se non che il padre faceva il barbiere ma coltivava anche il tabacco (cosa fantastica, ma reale se pensiamo alle dimensioni di quel paesino) e la madre che faceva la cuoca (questo già mi inquieta: cucinava per la casa o per qualche scuola o snack bar?). Vorrebbe fare il giornalista, ma la guerra lo chiama e si arruola in Marina dove partecipa alla battaglia di Okinawa, 1945. Okinawa: tutti ricordiamo quella statua di alcuni Marines intenti a piantare la bandiera americana sulla cima di una collina intrisa di sangue giapponese e americano, celebrata poi da Clint Eastwood in uno dei suoi film.

La carriera cinematografica comincia con un western, e non poteva essere altrimenti. Harry è il classico personaggio del West. Vederlo uscire da un saloon, un po' barcollante per i fumi dell’alcol e venire verso di te, con quella sua espressione truce ma forse solo segnata dalla vita, potrebbe già essere l’inizio di un ottimo western. Come l’altro western che interpreta accanto al suo amico, mezzo svitato e folle, Jack Nicholson, “ LE COLLINE BLU” di Monte Hellman, del 1966, già, quella volta che Jack gli suggerì: ”Lascia che siano i tuoi vestiti a recitare, tu pensa solo ad essere te stesso”, una frase da urlo, che pare dettata dai postumi di una sbronza colossale o, magari, da una conoscenza acuta e ironica dell’arte recitativa. Arte recitativa che Wim Wenders intravede in Harry e ne fa il protagonista di PARIS TEXAS, del 1984, forse il film più significativo. C’è tutto Stanton in quel film e non poteva che essere lui. Ci sono ruoli di villains nel cinema americano che potrebbero essere interpretati da diversi attori caratteristi (nel western, ad esempio, come non pensare a Jack Elam, al primo Lee Van Cleef, ad Arthur Kennedy, Neville Brand, Lee J.Cobb eccetera), ma quel ruolo in PARIS TEXAS non poteva che essere suo. La pensa così anche il critico Roger Hebert che scrive una cosa magnifica: ”Harry ha trascorso molto tempo negli angoli bui del noir americano, con la sua faccia sottile e i suoi occhi affamati e in questo film crea una triste poesia” : straordinario.

Anche il nostro Sorrentino non ha potuto fare a meno di pensare a lui quando realizza THIS MUST BE THE PLACE, (2011)al punto che VARIETY, la notissima rivista cinematografica (e non solo) americana scrive: ”Come tutti i grandi registi che fanno un road movie, Sorrentino riesce a mostrare sia i luoghi fisici, sia le trasformazioni interne e, avendo ben chiaro il genere cinematografico che sta realizzando, sa bene che Stanton deve farne parte”.

Chiarissimo, no? Personalmente lo ricordo bene in VIGILATO SPECIALE (1978) di Ulu Grosbard, in un ruolo a lui particolarmente adatto, quella di un ladruncolo di mezza tacca che finisce male, anche per colpa del protagonista , un inaspettato Dustin Hoffman), ma anche nel ruolo di un poliziotto super-antipatico in MARLOWE, IL POLIZIOTTO PRIVATO (1975) di Dick Richards.

La vera ricchezza del cinema americano è quella di poter contare su un numero notevolissimo di caratteristi che in qualsiasi altro Paese sarebbero grandi protagonisti. Stanton ha attraversato il cinema americano con il passo sicuro del grande attore che sa di essere ma che in nessun modo lo fa sentire speciale, diverso. Il suo volto scavato e l’espressione stanca, triste sono elementi preziosi per qualsiasi regista intenzionato a raccontare l’America operaia, dura ed umile, borderline, sempre ad un passo dall’illecito, poco incline all’entusiasmo, poco affezionato alla politica e al potere, chiusa magari in se stessa, ma pronta a dare una mano, in cambio di niente.

Ora che ci ha lasciato, non resta che aspettare per vedere l’ultima sua fatica e cioè LUCKY, di cui già si dice un gran bene.

 

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