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Gillo Pontecorvo, Carrero Blanco e la Real Sociedad
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Euskadi Ta Askatasuna (E.T.A.)

 

Ci sono storie che sono già Storia, impresse nei libri e nella memoria. E ci sono storie con la minuscola, che riavvolgono il nastro della memoria su un campo di calcio. Vittorie e sconfitte, gioia e dolore, in quella replica della vita che è un incontro di pallone. A volte queste storie senza maiuscola significano però qualcosa di più, vanno ad intrecciarsi con la cronaca che si farà Storia, coinvolgono un intero popolo, orgoglioso e tetragono, stampano negli albi d’oro la coscienza di una gente, le stimmate di un sangue, le rivendicazioni di un’autonomia, illuminano di lustrini una strada lastricata anche e soprattutto di tragedie. Capita che il cinema possa creare la sintesi perfetta. Non è proprio questo il caso: qui si parla di tre avvenimenti distinti eppure irrorati dalla stessa matrice arteriosa: il separatismo basco. Luis Carrero Blanco, Gillo Pontecorvo, Roberto Lopez Ufarte. Tre nomi, misteriosamente legati. E tre anni: 1973, 1979, 1981. Anni dispari, anni di lotte, morti, gioia.

 

1973. Quando la Spagna si guarda allo specchio, non può che rivedersi come era. Al buio, sotto la spessa coltre fumogena voluta dal generalissimo. La Spagna di Franco era un mero simulacro di paese civile, uno spaventapasseri delle libertà sociali e culturali, una nazione avviata al conformismo becero. Se ancora oggi tutte le spinte autonomistiche, brulicanti in un Paese forse mai realmente svincolatosi dal suo passato, incontrano sul proprio cammino ogni sorta di ostacolo centripeto, pensiamo a cosa poteva essere, nell’anno di grazia 1973, la forza propulsiva del separatismo basco. Una mera ipotesi ferma ai blocchi: Franco aveva ridotto al silenzio le istanze di autonomia di quella gente che si sentiva (come ancor oggi) popolo e, dunque, scrigno di cultura, usanze, riti, a parte, miniera di caratteristiche peculiari, fonte presso cui soddisfare ogni sete di particolarità ed orgoglio. Poco prima degli anni ’60 nacque l’E.T.A., gruppo separatista basco che si rifaceva, un po’ confusamente, alle teorie di Marx ed alle dottrine rivoluzionarie di Castro ed Ho Chi Minh. Come accadrà di lì a poco anche in Italia, la lotta armata divenne il pane quotidiano ed il libricino rosso da cui leggere: seminare il terrore per affermare un principio, generare orfani e vedove per bilanciare il silenzio che le alte sfere calavano come macigno sulle idee di novità e palingenesi. L’ammiraglio Luis Carrero Blanco (l’Ogro, l’orco) era dunque uno tra i nemici da abbattere. Fedelissimo di Francisco Franco, dai metodi spicci e naturalmente mai concilianti, fu da questi nominato, nel giugno 1973, primo ministro e Capo del Governo. Nonostante l’età non verdissima Carrero Blanco si avviava a mettere a frutto le sue innegabili doti di delfino del caudillo. Dopo Franco, la Spagna avrebbe avuto un degno successore. Non per l’E.T.A., che agiva in sottotraccia da tempo e per la quale quella nomina ebbe l’effetto della goccia che fa tracimare il vaso d’odio. Il 20 dicembre 1973, vicino alla propria abitazione, Carrero Blanco cadde vittima di uno spettacolare attentato. Una devastante carica di esplosivo posta sotto il manto stradale fece saltare in aria la macchina del politico, incendiando altre vetture. Una sorta di affaire Moro in salsa basca, la spettacolarizzazione della violenza, la commistione esplosiva (absit iniuria verbis) tra legittimità delle istanze e dabbenaggine malata nel porle in atto, nel dar loro forma politica. Il franchismo aveva, tuttavia, i giorni contati. Dal 1978 l’autonomia dei Paesi Baschi è stata sostanzialmente riconosciuta, benché l’E.T.A. abbia continuato negli anni a seminare terrore. E nel sangue di quel popolo continua ancor oggi a scorrere una selvaggia vena di solipsismo che, a quanto pare, ha contagiato anche la Catalogna.

 

 

1979. Gillo Pontecorvo è già al passo d’addio. Regista che centellina le proprie energie (sorta di Terrence Malick prima del nuovo millennio), il cineasta non ha tuttavia lesinato impegno e rigore civile nel tratteggiare epopee filmiche che rimandano ai grandi temi ed alle grandi storie dell’umanità: nazismo (Kapò, 1959, candidato all'Oscar per il miglior film straniero), guerra d’Algeria (La battaglia di Algeri, 1966, Leone d’oro a Venezia), colonialismo (Queimada, 1969). Una coscienza come quella di Pontecorvo, animo pugnace nascosto dall’aspetto raffinato e gioviale, non poteva non lasciarsi ammaliare da quanto successo in Spagna sei anni prima. Del resto, come ricordato, l’Italia aveva appena visto morire un altissimo esponente politico. Un parallelismo, sebbene forzato, si imponeva. La cronaca che andava diventando Storia, appunto. Nasce in quell’anno Ogro (Operacion Ogro, nell’originario titolo spagnolo), dal nomignolo sprezzante (orco) con il quale si era soliti designare Carrero Blanco. Una ricostruzione accurata dell’attentato al politico e, in particolare, della sua fase preparatoria. Temi importanti: la formazione politica dei quattro che formano il commando omicida, le riflessioni mai banali sulla violenza politica, sul suo uso, sulla sua necessità, sulla sua (in)determinatezza, sulla sua utilità, sulla necessità di continuare ad agirla ed opporla nell'auspicato periodo di relativa calma del post-franchismo. E la consueta interpretazione memorabile di Gian Maria Volontè, nei panni di Ezarra, il capo dell’organizzazione. Un ruolo che, non è difficile immaginarlo, aderiva all’attore come una perfetta seconda pelle, andando a fondersi senza problemi con quella che è sempre stata, sino alla morte, la sua anima fiammeggiante e guerreggiante.

 

 

1981. La Spagna pare aver raggiunto un difficile equilibrio. Ma piccoli focolai di franchismo, ormai tendenti al patetico e al colorito, continuano a manifestarsi. Il 23 febbraio di quell’anno un gruppo di militari della Guardia Civil tenta un colpo di stato (passato alla storia come il golpe Tejero, dal nome del baffuto colonnello protagonista). Le immagini fanno il giro del mondo: sembrano quadri di un tardivo Carnevale pronto alla violenza, la riscossa di un gruppo di quasi ottuagenari ancorati alle stellette di un passato lontano, una Guernica senza sangue o cadaveri, ma astrattamente comica. Sarà lo stesso Re di Spagna ad opporsi ai militari: la Spagna riacquista quel lumicino di serenità faticosamente accalappiato lungo il corso di anni lunghissimi e bui. Intanto, sui campi di calcio, è in corso la cinquantesima edizione della Primera Divisiòn. Le protagoniste sono le solite: Real Madrid, Barcellona (in quell’anno funestata dal subitaneo rapimento del capocannoniere Quini), Atletico Madrid. Eppure, continuando nel sogno che l’anno prima la aveva portata ad un passo dal titolo, tra le grandi si insinua una piccola realtà, uno strano Brutto Anatroccolo, con usanze e tradizioni tutte orgogliosamente appartenenti alla provincia autonoma di Guipuzcoa: è la Real Sociedad di San Sebastian. Baschi, sì. E baschi sono tutti, proprio tutti, i giocatori. I nomi non mentono, non potrebbero. Nomi aspri, terragni, mine lanciate contro il governo centrale del Real e del Barcellona e contro i loro stranieri acquistati a peso d’oro (il biondo e capriccioso tedesco Schuster, Laurie Cunningham, probabilmente il primo negro – come allora si diceva – a giocare in Spagna): Gorriz, Kortabarria, Larranaga, Aranzabal, Satrustegui, Bakero. E, naturalmente, Luis Arkonada, all’epoca considerato il miglior portiere del mondo, che divide le proprie prestazioni nazionali tra la Spagna e l’Euskadi, la rappresentativa dei Paesi Baschi. All’ultima giornata la Real Sociedad è di scena nelle Asturie, a Gijon. Basta un pareggio per conquistare il primo titolo della storia e strapparlo al Real di Madrid. Potere centripeto contro scapigliatura centrifuga. Ad un minuto dalla fine lo Sporting Gijon è in vantaggio per 2-1. Il sogno sembra svanire ancora una volta, come il noioso scorrere del fiume della Storia vorrebbe. Invece, a 30 secondi dalla fine, ci pensa Roberto Lopez Ufarte. Nato in Marocco, ma spagnolo e soprattutto basco, basco fino al midollo. L’anno dopo giocherà i mondiali di casa con la nazionale delle Furie Rosse, infatti (l’Euskadi non ha, è evidente, alcuna reale dignità internazionale). Il primo titolo della storia ad un paese basco: si compie il sogno di ogni E.T.A. senza armi, si avverano lontane profezie che volevano i baschi vincitori in una patria ostile e mai realmente sentita come propria. Nel 1982 sarà ancora un’altra vittoria. Altra gioia, altra superbia. Presoak Etxera!, come gridano a Bilbao. E quegli altri baschi vinceranno, infatti, il titolo nel 1983 e nel 1984. Anni d’oro per l’Euskadi, quei fantastici primi degli ’80. Poi più niente, solo orgoglio e grida dalle caverne del senso di appartenenza.

 

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